di Clemente Ultimo
Lontana dai riflettori, ma ben radicata nella realtà di quella “città degli invisibili” che quotidianamente si sovrappone – spesso senza mai incrociarsi con essa – a quella città che conoscono, vivono ed animano tutti coloro che hanno un’esistenza incardinata nei canoni di una normalità a volte precaria, altre noiosa, ma sempre alla fine rassicurante. Questa la descrizione che meglio si adatta all’esperienza portata avanti, da ormai ben tredici anni, da un gruppo di volontari presso il complesso dei missionari Saveriani. Un’iniziativa nata sull’onda di un entusiasmo giovanile che, forse, neanche aveva immaginato quali spazi si sarebbero aperti a fronte di un impegno generoso e coinvolgente. Non un dormitorio, bensì un’esperienza di accoglienza – come tengono a sottolineare i volontari che animano la struttura nata nel rione Petrosino – che nel corso degli anni è cresciuta negli spazi, nel numero degli ospiti, ma soprattutto nella rete di impegno e solidarietà che intorno a questa iniziativa si è andata progressivamente costruendo e cementando. Ma andiamo con ordine.
Tredici anni fa sette giovani salernitani provarono a trasformare in impegno concreto il proprio desiderio di aiutare chi, per i più disparati motivi, si trova a condurre una vita priva di riferimenti stabili, ad iniziare da una dimora. Sull’onda dell’entusiasmo, dopo non pochi tentativi andati a vuoto, venne colta la disponibilità offerta dai missionari Saveriani: un paio di locali da adibire a dormitorio e mensa, servizi igienici e docce a disposizione degli ospiti. Nel corso degli anni si sono aggiunti una nuova sala per gli ospiti ed una lavanderia, servizio particolarmente utile per chi trascorre la sua giornata in strada. Nello stesso lasso di tempo sono cambiati gli ospiti: nei primi anni in molti erano in strada per scelta di vita, oggi pesa molto di più la crisi economica. “All’inizio c’era la possibilità di accogliere dieci ospiti, tutti uomini a causa degli spazi disponibili, – dice Antonio Bonifacio, uno dei volontari che ci guida alla scoperta di questa realtà – oggi riusciamo ad ospitarne sedici per notte, ma in periodi di emergenza siamo arrivati anche ad avere oltre venti letti occupati. Con la pandemia abbiamo dovuto adottare ulteriori precauzioni, tuttavia siamo riusciti a garantire l’apertura della struttura anche nei momenti più difficili”. Un successo frutto del lavoro dei volontari impegnati nel servizio di accoglienza – oggi diventati quaranta – oltre che di una scelta coraggiosa e controcorrente: rinunciare a qualsivoglia forma di finanziamento istituzionale per portare avanti questa esperienza. Ad oggi, infatti, le uniche risorse economiche che sostengono il progetto sono quelle della Caritas diocesana, mentre tutto il resto è frutto di donazioni. Singoli, famiglie, esercizi commerciali, professionisti che mettono a disposizione le proprie competenze: in tanti ormai sono parte di una rete di solidarietà impegnata a dare continuità ad un’iniziativa che va ben oltre l’offrire un ricovero notturno ai senza dimora. È grazie a questa rete che è possibile offrire una cena calda e la colazione agli ospiti – più che una stretta necessità, un momento di condivisione comunitaria – ma più ancora un minimo di stabilità: a disposizione di ognuno, infatti, c’è non solo un letto, ma anche un armadio in cui è possibile lasciare le proprie cose al momento dell’uscita al mattino.
Quella che è nata nel rione Petrosino è, in effetti, una comunità abbastanza stabile – ci sono ospiti che frequentano la struttura da ormai sette anni -, elemento questo che contribuisce a gestire in maniera più efficace le situazioni difficili, che pure non mancano. “Le dinamiche di vita dei nostri ospiti – dice ancora Antonio Bonifacio – sono estremamente complesse e diversificate. Noi accogliamo tutti, ma l’esperienza ci ha insegnato che dall’altra parte deve esserci una disponibilità ad essere accolti. In questo particolare microcosmo siamo costantemente impegnati nella costruzione di una relazione di rispetto e reciproca fiducia. Anche per questo motivo cerchiamo di coinvolgere ogni ospite, in base ovviamente alle sue possibilità, nella gestione della struttura: un compito apparentemente banale come occuparsi della pulizia delle docce contribuisce a generare senso di appartenenza, rispetto e collaborazione”. Sono nati così rapporti che vanno ben oltre il tempo della permanenza all’interno della struttura, resistenti anche al periodo di chiusura. Il punto di accoglienza, infatti, opera dal 1° novembre alla metà di aprile. Una scelta precisa, che mira ad incentivare la volontà di ricerca di un percorso di stabilizzazione ed inserimento degli ospiti. “Naturalmente – chiosa Antonio Bonifacio – non lasciamo nessuno in strada, ma cerchiamo di evitare una sorta di autoemarginazione che abbiamo visto in qualche caso. I tentativi di inserimento, lavorativi in primis, non sono mai facili, richiedono grande impegno, ma non mancano le criticità risolte positivamente. Ci sono poi quei casi che meriterebbero ben altra attenzione anche da parte delle istituzioni, abbiamo anche ospiti in gravi condizioni di salute, ma di cui nessuno sembra volersi fare carico: da noi ci sarà sempre la porta aperta”.