Toto-titoli al teatro Verdi nell’abituale scambio degli auguri per il nuovo anno. Nell’anno del bicentenario della nascita di Giuseppe Verdi, dedicatario del nostro massimo, non potevano mancare i festeggiamenti per il compositore, che Daniel Oren ha deciso di celebrare con tre interessanti titoli, l’Otello, il Simon Boccanegra e il Nabucco. La stagione prevede cinque titoli affiancati da una rassegna concertistica e non mancherà il contraltare con Richard Wagner nel suo stesso anno celebrativo. Riflettori, quindi, puntati su Otello, invocato da più anni dai melomani salernitani, una summa e allo stesso tempo un valore a se stante nell’opera verdiana. Una visione unitaria del lavoro, realizzata da Verdi, la cui architettura poggia su organiche sezioni, bloccate intorno ad un corpo unico, dal quale deriva la vita, la contraddizione e l’umiliazione, la sofferenza della musica, che scende col suo eroe degradato, la scala di una gloria perduta verso l’ultimo nulla. Seguirà il Simon Boccanegra, altra scelta intellettualmente raffinata, da parte di Oren. Giuseppe Verdi, infatti, era affezionato a questa cupa storia di bassi e baritoni, un concentrato di temi a lui cari: i problemi della ragion di stato, la solitudine del trono, il divorzio tra il potere e gli affetti privati. Non si rassegnava al suo insuccesso, e in tarda età, dopo l’Aida e la Messa da Requiem, nel 1881, si accinse a raddrizzare le gambe di questo tavolo zoppo, come diceva lui, con la collaborazione librettistica di Arrigo Boito, che fu, tra l’altro, la prova generale della composizione di Otello. Mirabile il primo atto, dove alla improntitudine melodica, quasi un poco gaglioffa della prima parte, segue una colossale scena, interamente aggiunta nel rifacimento del 1881, che è una delle più grandi creazioni di Verdi, e pertanto dell’intera musica di ogni tempo e luogo. La rappresentazione del Nabucco è naturalmente un po’ telefonata, visto che il teatro Verdi ne possiede scenografie e costumi firmati da Quirino Conti realizzate per l’esecuzione del 2009. Nabucco è l’opera del “Va’, pensiero, sull’ali dorate; va’, ti posa sui clivi, sui colli, ove olezzano tepide e molli l’aure dolci del suolo natal!”, il più famoso coro del melodramma italiano, col suo salto musicale di ottava su “ali”, come a spiccare idealmente il volo verso una libertà agognata, un diritto umano (“chi è libero di pensiero è già libero nello spirito” diceva un noto rivoluzionario). Un coro semplice, ad una voce (…né poteva essere altrimenti) che tutti noi potremmo anche cantare insieme ai maestri, che va a collegarsi con l’altra prestigiosa scelta di Oren, vera gemma del nostro cartellone, “La Juive” di Halévy, che nel 1835 a Parigi fece registrare uno tra i maggiori successi di tutti i tempi. Pur esibendo un’architettura formale sovente “sperimentale”, quest’opera coraggiosa venne immediatamente considerata come una tra le espressioni canoniche del grand-opéra, vero e proprio modello sia per le tematiche trattate (irriducibile conflitto individuale e collettivo, riverberato su sfondo storico, nonostante le licenze), sia per l’articolazione degli stilemi fondamentali del genere, dai tableaux fino al risolutivo coup de théâtre, sia per la maestria del compositore nel proporre nuove articolazioni melodiche e formali, con esito particolarmente riuscito nel trattamento dell’orchestra. La Juive offre un contributo di portata notevole a uno dei temi più attuali, oggigior no: il conflitto interreligioso, asperrimo, qui incarnato da cristiani e israeliti e rappresentato per metonimìa da un padre putativo, Éléazar, e un padre vero, Brogni. Tutto il lavoro è frutto di un librettista di genio come Eugène Scribe e di un compositore di talento come Fromental Halévy, parte di una grande famiglia che contribuì non poco ai fasti dell’opera francese. Segni di quell’arguzia, che si estende dai lavori di Gounod agli opéras-bouffes di Offenbach fino alla Carmen di Bizet e oltre, si possono rintracciare sin nei dettagli, come l’allusione scoperta al miracolo della Nozze di Cana, con le fontane di Costanza che, per ubriacare una folla imbecille, butteranno vino invece di acqua. Finale di stagione, in dicembre con la popolarissima Bohème, di Giacomo Puccini, con il freddo e Parigi che sono il suo fondale di verità. Tutta l’opera si svolge nell’attesa che Parigi resti tale senza più il freddo che, da reale, si assume presto a metafora dell’esistenza. Con Mimì cominciano le creature che passano nella vita senza una precisa ragione, salvo la loro precisa, inattaccabile innocenza.
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