di Peppe Rinaldi
Il clientelismo è elemento strutturale della nostra cultura, nel bene (a volte) e nel male (spesso). Oggi non si assiste, se non in forme attualizzate, al rito della “salutatio” mattutina che i clientes dell’antica Roma celebravano ogni giorno piazzandosi nei pressi del domicilio del senatore, del tribuno o del ricco di turno per “salutarlo”, appunto, nel tentativo di ingraziarselo per la tal questione o il tal caso personali. Nel corso dei secoli le cose sono cambiate poco adattandosi allo spirito del tempo ma la ciccia è sostanzialmente quella, un do ut des la cui lettera ormai capiscono pure gli esquimesi.
Accade, però, che da una volgare operazione di clientelismo politico-elettorale ne possano discendere tragedie private che investono la pubblica autorità in un miscuglio di colpe e responsabilità che la stessa magistratura (come noi oggi la intendiamo) fatica ad ordinare. Prendiamo il caso del tredicenne di Agropoli, Giuseppe Tuccio, che proprio per una faccenda di clientelismo spicciolo ci ha rimesso la vita circa 20 anni fa: il ragazzino morì perché fu sbalzato dalla bici transitando su un dissuasore di velocità, tecnicamente un dosso, piazzato senza il rispetto dei parametri normativi su una strada pubblica e solo perché qualcuno, per venire incontro alle esigenze di un potenziale elettore di chissà chi, si era peritato di farlo installare «all’italiana», cioè incaricando una coppia di amici artigiani, peraltro manco del mestiere, senza passare dagli uffici comunali, quindi senza il rispetto della legge e della relativa previsione in tema di sicurezza stradale. Risultato: il ragazzino impatta contro il dosso, cade battendo la testa e dopo sei strazianti giorni di agonia muore. Una tragedia, a dir poco. Chi scrive del caso s’è occupato diverse volte raccontando la via crucis giudiziaria della famiglia della vittima, uno strazio nello strazio tra carte, perizie, documenti, testimonianze, ordinanze, sentenze, tribunale civile, penale, appello, cassazione, poi ancora appello e così via, un inferno che gli italiani conoscono bene (quando ne sono coinvolti). Fino a giungere nel settembre scorso, a chiusura di tutta la vicenda, all’individuazione del responsabile vero della morte di Tuccio, che sarebbe l’ex vice comandante dei vigili urbani Carmine Di Biasi. Per la III Sezione civile della Cassazione il responsabile della morte del piccolo Tuccio è lui, nero su bianco, al di là dell’accordo transattivo tra il Comune di Agropoli e la famiglia del ragazzino, che ha posto fine al lungo contenzioso: l’ente – quindi i cittadini agropolesi – pagherà (anche) questo dazio nella misura di circa 300mila euro in tre rate, somma che, a onor del vero, appare perfino scarsa se si considera che una giovane vita è stata stroncata perché un vigile urbano ansioso dell’esito elettorale di chissà chi voleva «fare un piacere» ad un altro chissà chi, ordinando a piacimento l’installazione del mortale dissuasore. Un caso di scuola della cosiddetta eterogenesi dei fini: voleva far bene a qualcuno, diciamo, ha fatto male ad altri. Succede, ma così come succede è altrettanto giusto che la cosa venga raccontata nella sua interezza e verità oggettive. Nei limiti del possibile, s’intende.
Come andarono le cose quel giorno
Nel pomeriggio del primo ottobre del 2007 il piccolo Giuseppe Tuccio è in sella alla propria bici e sta percorrendo Via Difesa; ad un certo punto impatta contro un dosso artificiale, di quelli fatti a moduli gialli e neri, cade e batte violentemente la testa sull’asfalto, morirà dopo sei giorni di coma nell’ospedale di Vallo della Lucania.
Subito le indagini si concentrano su Carmine Di Biasi, all’epoca vice comandante della Polizia municipale, al quale viene ascritta la colpa di aver installato quel dosso senza rispettare le norme vigenti e, in particolare, per averne scelto uno diverso da quelli prescritti per quella strada; di aver proceduto in assenza dell’ordinanza dell’ente proprietario della strada (il Comune); e di essersi dimenticato di far apporre la segnaletica. Una sola mossa, tre errori: fatali, letali.
Oltre alle indagini penali si attiva anche la popolazione, che redige un esposto sottoscritto da circa 60 residenti diretto al sindaco di Agropoli, all’assessore ai lavori pubblici, ai vigili e ai carabinieri, con cui si chiede l’immediata rimozione di quel dosso e si sottolinea, tra l’altro, che aveva già causato danni ad altre persone.
Alla luce di queste premesse, la cosa più semplice che avrebbe potuto/dovuto fare il Comune sarebbe stata quella di eliminare il dosso. Invece l’amministrazione decide di coprire, in un certo senso, il vice comandante dei vigili, da un lato sanando ex post la irregolare installazione del dosso (praticamente dopo la morte di Tuccio appone la segnaletica ed emana l’ordinanza comunale precedentemente omessa), dall’altro ignorando la richiesta dei 60 residenti di Via Difesa che ne chiedevano la rimozione. Ma non finisce qui perché le strane “coperture” proseguono e si inizia anche a capirne la ragione. Infatti emergerebbe che Di Biasi mise quel dosso verso la fine del mese di aprile 2007 per accontentare la richiesta di un cittadino/elettore, quindi l’operazione venne fatta nel momento caldo della campagna elettorale, quella stessa che nel maggio successivo decreterà la vittoria di Franco Alfieri, oggi leader a Paestum e alla Provincia di Salerno, già in carica al momento della tragedia.
L’irregolarità viene ammessa anche dallo stesso Di Biasi, il quale spiega che quel dosso l’ha fatto mettere per tutelare le persone visto il tratto di strada dove venivano segnalati diversi pericoli. Le stranezze, chiamiamole così, non si esauriscono: infatti, il pm non può sequestrare il dosso perché l’ente l’ha sanato e, dopo essersi affidato ad un consulente tecnico che esclude qualsiasi responsabilità del vigile urbano (affermando che i segnali omessi non servivano al piccolo Tuccio visto che, essendo il bambino residente in quella zona, ben sapeva dell’esistenza del dosso, sic!) avanza richiesta di archiviazione. A ciò si oppone la parte lesa, cioè la famiglia Tuccio, e infatti il gip dispone un’ordinanza di imputazione coatta – che significa che ordina al pm di mandare alla sbarra Di Biasi – smentendo clamorosamente il consulente che era stato scelto, un ingegnere (tal Bertini) che, peraltro, nel corso del processo emergerà essere stato destinatario di incarichi professionali alla Provincia nel periodo in cui era assessore Franco Alfieri, cioè il sindaco di Agropoli quando ci fu l’inghippo del dissuasore stradale: del resto, anche il difensore di Di Biasi, assai emblematicamente difensore anche del Comune citato come responsabile civile, è un ex assessore del Comune di Agropoli, giunta Alfieri, un tourbillon di cariche e incarichi cui ci siamo venuti abituando da tempo e che, come effetto a valle, produce la spiacevole sensazione che l’amministrazione, anziché prendere le distanze da un dipendente che non ha rispettato la legge causando addirittura un morto, gli fa quadrato attorno con una superfetazione di solidarietà semi-castale avvilente: non è la prima né sarà l’ultima amministrazione a farlo, sia chiaro, ma tant’è. Come vedremo nella seconda parte di questa brutta storia (1_continua)