Adriana Lecouvreur: Melpomene son io! - Le Cronache
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Adriana Lecouvreur: Melpomene son io!

Adriana Lecouvreur: Melpomene son io!

Trionfo assoluto della coppia di protagonisti, il tenore Charles Castronovo ed Ermonela Jaho, insieme a Teresa Romano e Misha Kiria. Daniel Oren centra la trasposizione sentimentale in musica, quanto la regia di Renzo Giacchieri che lascia al teatro in specchio l’ultima parola

 Di Olga Chieffi

 “Nella nostra anima c’è un’incrinatura, e il suono che essa dà, quando si riesce a toccarla, è come quella di un vaso prezioso”. Le parole di Kandisky per schizzare la prima dell’Adriana Lecouvreur andata in scena al Teatro Verdi di Salerno in questo week-end. L’opera di Francesco Cilea è un gioiello liberty racchiuso nel fondo di una piccola coppa vitrea del Settecento e Renzo Giacchieri, ha così immaginato una regia che ha fatto del grande talento attoriale dei protagonisti e in particolare, di Ermonela Jaho, il centro dell’intera opera, una partitura elegante e aristocratica, latrice di un discorso fluido, non ammanierato dal colore settecentesco, che guarda a quello napoletano, rivissuto e rielaborato con la sensibilità del tempo, caratterizzata da levigatezza ed essenzialità, discrezione del canto. E’ questa un’opera da primadonna e la Ermonela Jaho lo è, con la sua intensità sfolgorante, un vibrato avvolgente, sempre ben gestito, il registro centrale color del rame. La Jaho e l’intero cast  è stata superlativa interprete della intricata vicenda di amori segreti, sussurri mondani e bieche vendette femminili, di quella musica di estenuata elegia, che trova i suoi accenti più vividi nel ritratto della protagonista e in quello, antagonistico, della Principessa di Bouillon, una convincente Teresa Romano, mezzosoprano che ha rappresentato ogni effetto di questo umbratile personaggio parallelo, in cui la misura drammatica è data dal sentimento di un’esperienza quotidiana dominata da un’oscura fatalità. E’ l’Adriana Lecouvreur uno dei titoli maggiormente nelle corde di Daniel Oren, il quale ha scelto un cast stellare e un’orchestra che lo ha seguito con uno sforzo di volontà sopra le righe, per le poche prove, insufficienti, per un’opera nuova e ampia, la cui difficoltà è la ricerca continua del suono, del colore, dell’adattamento allo spazio sonoro e stavolta il plauso va tutte le sezioni, nonostante qualche incomprensione tra buca e palcoscenico nel III atto ove insiste anche il balletto, firmato da Corona Paone, étoile sancarliana che ha negli occhi il grande palcoscenico del massimo partenopeo, e ha dovuto adattare la sua idea del Giudizio di Paride, in uno spazio ben più angusto con le dovute conseguenze, e all’inizio del IV. Oren ha sottolineato le fasi salienti dell’azione con quella tensione espressiva che risponde alle concrete esigenze teatrali, dosando con duttile sensibilità il linguaggio sonoro, cercando sempre la giusta balance tra l’accento declamatorio con la melodia spiegata, riuscendo, in questo modo a far sì che i momenti lirici si compenetrassero con quelli drammatici, in un continuo e animato mutare di prospettive entro cui si attua lo svolgimento scenico. L’amore è espresso come illusione, voluttà o patimento, con puro abbandono, con immediata sensibilità, fuori da ogni complicazione cerebrale, Oren ha ricercato quel flou del primo Novecento, quell’ostinata armonia, unitamente alla delicata purezza degli accenti. Poco o nulla ci dicono le figure maschili dell’opera, a partire da quel Maurizio, un perfetto Charles Castronuovo, che dovrebbe costituire l’oggetto del desiderio di due donne e che si esprime con linguaggio musicale della più sciatta anonimia, salvo che trovare qualche accesso di maggior veridicità al contatto con Adriana. Dopo Adriana il personaggio più persuasivo è Michonnet, la cui patetica umanità è stata sottolineata mirabilmente da Misha Kiria, in “Ecco il monologo”una scena che da sola basterebbe a provare l’autentica ispirazione e la fine sensibilità morale di Cilea. Intensa l’esecuzione dell’orchestra Filarmonica Salernitana che riprende il tema cantato da Adriana “Io son l’umile ancella”, suggerendo nel tempo stesso il senso di un’affascinante presenza e di una pura rassegnata devozione, di un amore destinato a rimanere inesaudito. Bene anche il coro preparato da Armando Tasso e il resto del cast Francesco Pittari nel ruolo dell’abate di Chazeuil, Fabio Previati in quello di Quinault, Enzo Peroni di Poisson, e ancora Maurizio Bove un maggiordomo, Mad.lla Jovenot, che ha avuto la voce di Cristin Arsenova, e Lorrie Garcìa per Mad.lla Dangeville. Non intendiamo la tenace volontà della direzione del teatro di perseverare nell’inserimento in cast così prestigiosi del baritono Carlo Striuli, stavolta nella livrea del Principe di Bouillon, unica ombra di una inappuntabile compagnia. Sulla scena costruita da Alfredo Troisi e le luci con cui ha giocato Renzo Giacchieri, l’Adriana-Ermonela si spegne in preda a quello straniamento e a quella espressione del volto proprio delle dive dell’epoca dalla Sarah Bernhardt alla Eleonora Duse. Se per l’intera opera la luce, elemento prezioso, è stato propinato con estrema attenzione come un filtro, nel finale è divenuta abbagliante parola, pallida ispettrice che ha imbiancato la Adriana, nella sua solitudine, ponendo in fuga dal suo corpo ogni ombra, spazzando via dalla scena ogni residuo fantastico, mettendo in evidenza il volto, freddo, della grande attrice. Il sipario si apre sul fondale a specchio: è il teatro ora a gettare la maschera dinanzi alla morte, omaggiando attraverso l’applauso, la sua Musa, diva, sirena, Adriana Lecouvreur.

 

Adriana e Maurizio in una fotografia di Pasquale Auricchio