di Marco Alfano
Qualcosa di velato distingue la plastica nell’esperienza ceramica di Bruno Gambone, scomparso ieri mattina a Firenze a 85 anni, qualcosa di assorto e pensoso emergeva dalla vivacità del suo immaginario, una forza immutabile, infinita, che gli consentiva d’infondere incanto al grès, che lui preferiva, strappando quest’ultimo alla sua natura porosa e terrestre. L’argilla, allusiva del legame che salda il profondo e la superficie del globo, è riscattata nel suo farsi “progetto” di una vita possibile, sogno, che non rinuncia ad una struttura concettuale e spaziale strettamente articolata. Bruno era consapevole di quanto l’argilla fosse residuo di un mondo “infero”, presagio di forze interne sconosciute da vero artefice nell’esercizio imprescindibile della forma. Nato a Vietri sul Mare nel 1936, cresciuto a Firenze, Bruno inizia a dedicarsi all’arte giovanissimo, lavorando col padre Guido Gambone (1909-1969), uno dei maggiori ceramisti italiani del XX secolo, nel laboratorio di Via Benedetto Marcello, lo stesso, stipato di carte e di opere, dove egli ha continuato ad accogliere fino a ieri i suoi ospiti. Sarebbe difficile intendere storicamente la sua opera, senza riferirsi al fondamentale soggiorno americano tra il 1964 e il 1967, quando egli frequenta, a New York, gli studi di Louise Nevelson, Robert Rauschenberg, Frank Stella, acquisendo da questi artisti, prima di tutto, una rinnovata relazione tra forma e contenuto, tra “progetto” e modalità esecutiva, che si ritrova oggi nelle sue creazioni. Rispetto all’esperienza della ceramica paterna, definitivamente superata, quella di Bruno si differenzia per molteplici aspetti: il primo è quello di un nuovo “intento percettivo”, che Gillo Dorfles ha definito “attivo”, distinguendolo dalla “passiva” elaborazione dell’immagine. Opposizione che riproduce, in termini contemporanei, l’antitesi aristotelica che vedeva contrapposte le facoltà di percezione e di immaginazione; quest’ultima si distingue dall’imitazione delle cose percepite, e propone, come avveniva nella pittura italiana del Quattrocento, la prospettiva quale impianto geometrico-razionale teso ad un approccio “attivo” dell’occhio nei confronti della composizione pittorica. Nei suoi dipinti, superata la “geometria della forma” che domina l’eredità paterna, egli perviene ad una “geometria percettiva”, decisamente immateriale, guardando in particolare alle strutture di Frank Stella, dal quale assume un’irresistibile “attrazione per le forme piane geometriche, ed un approccio ad una spazialità piana, con un dichiarato valore di realtà oggettiva”. Una di queste opere, dal titolo “l’Ara”, realizzata in occasione della personale alla Galleria Annunciata di Milano nel 1970, è stata accolta nelle collezioni al Centre Pompidou di Parigi. In seguito, la sua ricerca continua con dipinti sostenuti da un impianto geometrico rigoroso, ma anche nelle prime esperienze autonome nella ceramica, che datano subito dopo la scomparsa del padre (1969), come la serie di fiasche in grès, esposta alla Biennale veneziana del 1972, che, pur richiamando soluzioni di Guido, ne stravolgono il senso, mettendo in discussione lo stesso valore formale dell’oggetto. La ceramica di Gambone non racconta, ma si rivolge allo “stato delle cose”, dove l’artista assoggetta l’elaborata tecnica, la “pratica” del fare ceramica, alla propria facoltà immaginativa, che si rende augurio di un racconto “futuro”, cristallizzato nella porosa durezza del grès, lasciato grezzo, o lavorato ad ingobbi con pochi tratti di colore: marrone, blu, verde ramina. È un’inquietudine rispetto alla forma, quella sostenuta da Bruno Gambone, che l’autore individua nella poetica dell’oggetto: un pensiero questo che deriva di sicuro dalla frequentazione dello studio di una scultrice come Louise Nevelson, la cui esperienza, originata dal fluente lessico di Moore, spogliata di qualunque riferimento alle matrici di una grammatica memoriale, perviene alla completa “dematerializzazione” dell’opera, ridefinita nei termini di “attualità”, della propria immanenza. Si tratta di una svolta che determinerà, a metà degli anni Settanta e nel corso dei decenni seguenti, l’approdo a creazioni allusive alla natura o dichiaratamente “antropomorfe”. È un percorso, quello di Gambone, in continua trasformazione, che trova un’ulteriore tappa nelle creazioni polimateriche, come nella serie delle Donne africane, della metà degli anni Novanta, e nelle più recenti lastre e piatti di grandi dimensioni, dove al corpo della struttura “terrosa” del grès, sono aggiunti alcuni intarsi di porcellana, tòcchi sensibili di bianco che conferiscono inattesa varietà a queste composizioni. L’artefice, “fra terra e cielo, con la sua aspirazione all’infinito” ci ha mostrato il proprio cuore nella Terra; egli celebra il tono “basso” della materia, ma non solo attraverso gli occhi; egli desidera insinuarsi nell’immaginazione di ognuno. Caro Bruno, a ricordarci tale immateriale “sostanza” dell’opera, ci rimarrà la tua immaginazione, la vera metamorfosi dell’arte, di quelle “figure” toccate meravigliosamente dalle tue mani.