di Aldo Primicerio
L’emigrazione era e resta uno dei fenomeni più preoccupanti della crisi. Eppure, ci sono migranti e migranti nella storia. Quelli arrivati negli ultimi 2 anni in Italia da Africa, Europa dell’Est e Medio Oriente costituiscono il nomadismo migratorio, caotico e compulsivo, per lo più economico in fuga dalla fame, molto meno quello in fuga dalle guerre. Ieri e fino al 1970, quelli italiani, ad esempio verso gli Usa, avevano una motivazione, partivano per colonizzare un Paese da costruire. Era una collettività di migranti che assumevano coscienza politica e sindacale del loro ruolo nella società di accoglienza. Oggi, chi parte per gli Usa deve invece fare affidamento solo sulle capacità individuali e si affida ai social per il mutuo soccorso generico.Lo fa per cercare fortuna, per scommettere su se stesso, insomma per rimettersi in gioco, come si dice. Tra questi, e siamo ai nostri anni, il salernitano Ciro Casella, studi solo fino al quarto ragioneria, poi tanto lavoro ai mercati generali. Infine la chiamata del fratello Fabio da New-York. “Vieni, qui c’è tanto da fare ed io da solo non ce la faccio”. E Ciro arriva nel 2000. E con lui decolla la pizza italiana a New-York.
Lo incontriamo al San Matteo Pizza Espresso, al civico 1739 nella 2nd Avenue, tra Central Park ad ovest e la Roosevelt Drive, l’autostrada sul lato est di New-York City. Non è più grande di un monolocale, 7-8 tavoli, e qualcuno fuori quando il tempo lo permette. Ma la forma è un dettaglio quando la sostanza è solida. E’ un quattrostelle e mezzo su Trip Advisor, è raccomandato dalla Guida Michelin, è la seconda pizzeria più premiata a New-York, ed è pluricitata dal NY Times e dai più importanti quotidiani della metropoli. Apre alle 17 e chiude non oltre mezzanotte. Di lui hanno già scritto tutti. Ma è il suo american dream che ci interessa. Vale la pena ricordare che la sera qui arrivano ospiti come Bill De Blasio, sindaco di New-York con genitori di Sant’Agata dei Goti provincia di Benevento, o come Andrea Pirlo, fuoriclasse ex-Milan Juve e Nazionale prima di emigrare nel New York City, che proprio ad un tavolo del San Matteo qualche giorno fa accenna al suo addio al calcio. Ma anche attori dello star-system americano come Matt Dillon (Giovani guerrieri, I ragazzi della 56ª strada). Appena il tempo di sederci tra un tavolo di giovani americani ed uno di italiani, ed è un fiume in piena. “Quando vieni qui – dice – non sei a Kansas City o a Cincinnati. Sei a New-York, la città più popolosa in America, il centro commerciale e finanziario più importante al mondo. Se vieni qui, è dura. Non c’è nessuno che ti raccomanda o ti segnala, come spesso avviene in Italia. Devi avere capacità e credibilità. Insomma, mi si perdoni, devi avere “le palle”, altrimenti sei out”.
E’ di una grande ospitalità verso chi arriva da turista dall’Italia. Che diventa senza limiti per chi viene da Salerno, la sua città, la città dove gioca la sua Salernitana. E gli brillano gli occhi quando gli consegniamo il gagliardetto granata con la firma autentica del capitano Alessandro Tuia, consegnato prima a Roberto Guerriero, e da Roberto a me. Ed il fiume in piena ogni tanto si arresta per accogliere altri ospiti o per confabulare con il suo braccio destro, la figlia Marica, candidata a sostituirlo, con Fabio, nel dirigere i locali San Matteo. “Che ora sono tre. Le cose – aggiunge Ciro – stanno andando bene. Ed allora ho rilevato prima un altro locale piccolo proprio qui accanto, ed un altro ancora più grande dove faccio pizza e cucina. Ma mi sento maturo per fare altro. Ho registrato il marchio San Matteo, con il quale mi preparo a lanciare anche un caffè con il nome del patrono della mia città. Alla quale sono indissolubilmente legato”.
E lo dimostrano i nomi delle pizze nel suo menu: Vestuti Pizza, Mariconda Pizza, Cetara Pizza, Arechi Pizza, e c’è persino una De Luca Pizza. Oltre alle specialità della nostra terra, come il panuozzo, la parmigiana di melanzane o le polpette al pomodoro nel tegamino Insomma Ciro è uno che non dimentica, ha un filo diretto con Salerno. Il Ciro di ieri, con lo spettro della disoccupazione, è alle spalle. Quello di oggi è un business man, in contatto con le grandi catene di distribuzione alimentare negli Usa. La sua sembra una di quelle storie strabilianti di uomini che partono da zero per diventare ricchi e soprattutto famosi. Lui, camicia che fuoriesce dai pantaloni a cinta bassa, viso non rasato, incedere umile e felpato, è l’emblema dell’italiano che lavora duro e fa fortuna. D’altronde, la storia del sogno americano è ricca di esempi italiani: attori, cantanti, politici, sportivi, scrittori, scienziati, ingegneri che negli States decollano perché non devono divincolarsi nella palude degli ostruzionismi e delle raccomandazioni come in Italia, Paese dove la meritocrazia è solo una parola, un paravento per nascondere le nostre debolezze ipocrite e levantine, che spiegano perché qui da noi – nonostante estro creatività ed eccellenze che forse non ha nessuno al mondo – dilagano corruzione, disonestà, crisi del capitale e del lavoro.