di Raffaele Schiavone
<Garzione è l’attore e l’avvocato Gassani è il regista>. <Non posso perdere ogni dignità>. L’omicidio del penalista Leopoldo Dino Gassani, avvenuto la sera del 27 marzo del 1981, ruota tutto intorno a una dichiarazione urlata da un criminale in un’aula giudiziaria a Avellino nel corso di una udienza processuale e dalla frase scritta su un bigliettino dal professionista salernitano mentre due sicari gli intimavano di far ritrattare un suo assistito e pur essendo consapevole della fine che l’attendeva.
Dino Gassani, penalista stimatissimo in città, venne ucciso insieme con il suo fedelissimo collaboratore e amico Pino Grimaldi, un ex agente di polizia, nel suo studio legale al sesto piano del civico 203 al corso Vittorio Emanuele. A premere il grilletto fu una delle due persone che si presentarono, sotto false generalità, nello studio legale: Mario Cuomo e Antonio Schirato, due noti esponenti della Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. Lo si seppe solo qualche anno dopo, quando cominciarono i primi pentimenti nell’organizzazione cutoliana. Ma sul nome del mandante le forze dell’ordine non ebbero mai dubbi: Raffaele Catapano, meglio noto come <il boia delle carceri>, uno dei sicari di fiducia di Cutolo.Lo stesso Biagio Garzione, il cliente di Gassani, aveva immediatamente raccontato agli investigatori delle minacce che l’avvocato aveva subito negli ultimi due anni proprio da Catapano e dai cutoliani. Il <boia delle carceri> era stato arrestato in quanto ritenuto uno dei capi della anonima sequestri, legata alla Nco, che nella seconda metà degli anni ottanta imperversò in Campania. A questa organizzazione vennero attribuiti, in particolare, il rapimento del banchiere Mario Amabile e il sequestro e l’uccisione dell’imprenditore Michelangelo Ambrosio. Garzione, il telefonista della banda, iniziò a collaborare con la Giustizia. All’epoca non era stata ancora varata una legge speciale a favore dei <pentiti> ma il codice penale prevedeva, comunque, sostanziosi sconti di pena a favore di chi accettasse di collaborare con inquirenti e investigatori. Garzione, prima nel tribunale di Salerno dove si svolse il processo Amabile, e poi in quello di Avellino per il più grave fatto delittuoso, non ebbe paura di puntare l’indice proprio contro i suoi ex complici. Il collaboratore di Giustizia era assistito legalmente proprio dall’avvocato Gassani, noto nelle aule giudiziarie non solo della nostra Regione. Ritenuto un Uomo tutto di un pezzo, figlio di un ferroviere toscano trasferitosi per lavoro al Sud e fratello di un magistrato, sposato con Luisa Fiori e padre di due figli (Gian Ettore e Luigi) non ebbe dubbi nell’accettare la difesa di Garzione e a non abbandonarla quando il suo assistito decise di iniziare, su proposta degli investigatori, il percorso di collaborazione. Catapano vide, quindi, in Gassani, la mente del pentimento di Garzione , il quale con le sue dichiarazioni consentì alle forze dell’ordine di far luce sull’attività della banda e di mandare in carcere un nutrito numero di affiliati alla Nco facendoli poi condannare a pene severissime. E fu così che in un’aula del tribunale di Avellino, Garzione urlò la frase che, in pratica, decise il destino del coraggioso penalista salernitano: <Garzione è l’attore e l’avvocato Gassani è il regista>. Del resto, su stessa ammissione di Garzione, per due anni l’avvocato aveva subito minacce e avvertimenti affinchè lo convincesse a tornare sui suoi passi.
La sera del 27 marzo di 40 anni fa, due persone si presentarono nello studio dell’avvocato Gassani. Uno di essi aveva ottenuto l’appuntamento qualche giorno prima, spacciandosi per un nuovo cliente e fornendo generalità false, quelle di Antonio Genovese. Una volta giunti allo studio e accomodatisi di fronte al penalista, scoprirono le loro carte e le loro reali intenzioni. Erano Mario Cuomo e Antonio Schirato. <Ci manda Catapano> dissero, chiedendo poi a Gassani di convincere Garzione a ritrattare le accuse contro gli affiliati della Nco. E lo minacciarono di morte. Gassani non si scompose minimamente. Guardando negli occhi i suoi interlocutori appuntò due frasi: <Se sono matto li butto fuori> su un foglietto e, su un altro, quella che commosse tutti, dimostrando di che pasta l’uomo Gassani fosse fatto: <Non posso perdere ogni dignità>. Gassani rifiutò la proposta dei due emissari di Catapano, i quali portarono a termine la loro vile missione di morte trucidando il coraggioso penalista salernitano e il suo fidato collaboratore, Grimaldi, nel frattempo accorso nella stanza nel disperato tentativo di salvarlo. A scoprire i due cadaveri, fu uno dei figli di Gassani, Luigi, allora poco più che ragazzino. La famiglia Gassani abitava nello stesso stabile e la madre preoccupata perché il marito non fosse ancora rientrato (la coppia aveva prenotato una cena al Baja Hotel) chiese al figlio di andare dal padre per capire il motivo del ritardo. Uno choc terribile per Luigi ma che non gli ha impedito, come al fratello, Gian Ettore, di completare gli studi e di laurearsi, entrambi, in Giurisprudenza. Luigi, qualche anno dopo la tragedia, ha riaperto lo studio legale. E con orgoglio, l’avvocato Luigi Gassani, ama ripetere di sedere sulla stessa poltrona del padre. L’avvocato Gian Ettore Gassani, invece, iscritto al Foro di Roma, è uno dei più noti matrimonialisti italiani, più volte invitato a trasmissioni televisive in quanto presidente dell’Ami, l’associazione nazionale di categoria. Insomma, hanno seguito con orgoglio, dignità e successo le orme del loro genitore. A Leopoldo Dino Gassani e a Pino Grimaldi, anni dopo, venne conferita la medaglia d’oro al valor civile.
I carnefici? Tutti e tre vennero condannati all’ergastolo. Raffaele Catapano da feroce killer delle carceri e pluriergastolano è passato anche lui a collaboratore di giustizia. Mario Cuomo, santista della Nco, evaso durante una traduzione nella quale venne ucciso un carabiniere, rimase gravemente ferito (gli vennero amputate le gambe) nell’attentato che costò la vita a Vincenzo Casillo, detto <’o nirone>, il numero due della Nco. Negli anni ‘90 tentò di riorganizzare un clan stile quello cutoliano ma venne ucciso da sicari di un’organizzazione rivale. Schirato, qualche mese dopo, nell’agosto del 1981, ferì in un agguato a Mercogliano, alle porte di Avellino, il giornalista Luigi Necco, volto noto della televisione. Negli anni successivi partecipò ad altre azioni criminose, fino a quando venne arrestato. Tentò anche un’evasione dal carcere di Avellino: scavalcò il muro di cinta ma nel successivo salto cadde malamente e si fratturò il femore.