Nella giornata di oggi il vernissage della mostra dedicata al suo dialogo con Paestum, nella torre n°28 della cinta muraria, che ci catapulterà nel suo mondo ironico, infinito.
di Antonello Tolve
Il 2 marzo 2018, quando appresi della scomparsa di Gillo Dorfles, ero a Cluj-Napoca, in Transilvania, invitato da Ioan Sbarciu, presidente del senato accademico dell’UAD (Universitatea de Artă şi Design), a tenere la Laudatio per la Laurea Honoris Causa che conferimmo a Enzo Cucchi. La notizia di questa perdita, lo ricordo ancora come se fossero passati appena pochi giorni, mi lascio amareggiato e anche un po’ sorpreso: quasi incredulo. Sapevo, certo, che Gillo da tempo non stava molto bene, ma non avrei mai immaginato che questa figura ormai mitica – lui che non voleva assolutamente rientrare nella posizione irritante del mito contemporaneo che etichettava come una sorta di matusalemme o di fenomeno da baraccone – potesse spengersi da un momento all’altro, non essere più tra noi a darci un aiuto, un sostegno morale, a farci da guida con le sue brillanti dichiarazioni sul presente. Ero a tavola, e tra i commensali feci finta di niente, anche se ero forse visibilmente addolorato. Mantenevo una certa distanza: e con un intimo silenzio tradito dal telefono che di tanto in tanto squillava. Mi chiamavano ininterrottamente per chiedermi un articolo; ma non mi feci stringere dalle morse del coccodrillo di turno, fui alquanto categorico nel dire che ero molto occupato. Soltanto qualche tempo dopo, invitato da Matteo Bergamini a scrivere un pensiero su Exibart, rivista che Matteo dirige con grande puntualità, ebbi a ricordare alcuni miei incontri con un ragazzo della critica la cui curiosità è stata davvero ineguagliabile. Gillo non è stato per me soltanto uno dei più preziosi maestri che ho incontrato, ma anche un amico, in alcuni casi un confidente. Ricordo ancora quando mi invitò a Milano, in occasione della grande esposizione organizzata a Palazzo Reale per festeggiare i suoi primi cent’anni. Ci incontrammo in Piazza Duomo e appena entrati in mostra, ad attenderci, c’era una scolaresca, tanti piccoli curiosi bambini come lui che facevano domande e a cui Gillo rispondeva come un bambino tra i bambini. Una scena indimenticabile, davvero meravigliosa. Dopo circa un’ora, guardata e commentata insieme la mostra, decidemmo di andare a prendere un aperitivo, prima di recarci a casa sua, dove la governante ci attendeva per il pranzo. A metà strada, proprio di fronte al mastodontico Duomo, tra una stuola di turisti che disturbavano la nostra comunicazione, mi sentii dire, con un largo sorriso, «Antonello, senta, mi sembra sgradevole che noi ci si dia ancora del lei, diamoci del tu». La mia risposta fu soltanto, «va bene Gillo». Eravamo diventati «amichetti», diceva lui. Consumato un Crodino, ci dirigemmo di lì a poco verso la Metro e lì ancora una volta Gillo non smentì il suo essere ricordato per il suo passo veloce: si fiondò nel vagone come un lampo per prendere posto per sé e per me. Durante il pranzo si parlò tanto, di poesia in particolare. E di cucina. Come prima portata, tra l’altro, il piatto del giorno era stato creato da lui: penne con zafferano, piselli, cubetti di cipolla e prosciutto cotto. Lo ricordo ancora con il sorriso di quel giorno Gillo. Ricordo i nostri dialoghi, le nostre critiche – aspre, asprissime – nei confronti di mezze calzette e di presuntuosetti che gravitano e che cercano di galleggiare nella diarrea dell’arte d’oggi. La mostra di Paestum – Gillo Dorfles. La sua Paestum – che ho il piacere e l’onore di curare assieme a Nuvola Lista, rappresenta, dopo quella di Milano e dopo Essere nel tempo al Macro di Roma, la più completa analisi non solo del Dorfles pittore, e pittore non più clandestino da quando Cristina Di Geronimo lo invitò a realizzare un numero monografico per le edizioni Taide (siamo tra il 1985 e il 1986), ma anche di un pensiero che si è sempre contraddistinto per chiarezza e per una particolare linea estetica che ha privilegiato, sin dalle lezioni della Western Reserve University di Clevelant (1955), il disadorno, il disarmonico, l’asimmetrico, l’intuitivo, l’intervallare (non dimentichiamo il suo intervallo perduto del 1980 e non dimentichiamo che Il ritorno della pausa era il numero da lui curato nel 1982 della rivista Taide Materiali Minimi), il diastemico e tutto quel particolare materiale mio cinetico che ha definito e puntualizzato e precisato, proprio in occasione della nascita del MMMAC di Paestum (Museo Materiali Minimi d’Arte Contemporanea) a cui ha sempre creduto fermamente, come materiale minimo. «[…]. Tutte le scorie che lo scrittore strappa al suo poema […], tutti i minuti arabeschi che il pittore cancella con le sovrapposte stesure di colore; tutti i ripensamenti poetici, musicali, pittorici, che rimangono lettera morta destinata al cestino dell’immondizie, sono invece spesso le uniche germinali intuizioni da cui può prendere l’avvio l’opera autentica […]», aveva scritto nel 1982. Gillo era davvero una persona rara, un amico, un maestro che, assieme ad Angelo Trimarco, mi ha insegnato la giusta misura, l’obiettività di fronte a certi fenomeni che ci ruotano intorno, la lettura di chi si ha di fronte, il silenzio da mantenere, in certi casi in cui non vale la pena parlare ma anzi conservare la freddezza del distacco che pesa più delle parole. Quello che mi manca oggi di questo maestro (quanto avrei voluto averlo con noi a Paestum per questa mostra) è il suo humor, il suo essere Gillo. E del resto, lo sappiamo, la cosa più bella di Gillo era lui, era Gillo.