Erminia Pellecchia e Paola Capone hanno presentato il volume fotografico, edito da AreaBlu, che racchiude i 50 anni della galleria Il Catalogo di Lelio Schiavone e Antonio Adiletta
Alla Galleria, a Lelio e a mio padre.
Che la mia tesi di laurea triennale sia marchiata con la firma de “Il Catalogo” è stato un po’ il coronamento di un percorso, la sintesi di una vita che mi appartiene fin dai primi anni, quando varcavo quella soglia con la noncuranza di una bambina che ancora non immagina quanto delle mura possano nascondere i passi di un mondo. Per me era allora solo la “galleria” del mio papà, la “galleria” di Lelio a cui volevo bene come ad un nonno acquisito, il luogo che potevo far mio quando e quanto volevo. Ho sempre percepito soggezione, quel briciolo di timore accompagnato dalla consapevolezza di stonare, di essere fuori posto in quella stanza tanto piccola eppure tanto più grande di me. Timida e chiusa in un silenzio che soffocava le parole in gola, osservavo quel mondo con gli occhi di chi, pur essendoci cresciuto, non potrà mai farne parte davvero. Ricordo ancora l’odore pungente di carta e pittura ad olio inquinato dal fumo del sigaro che impregnava l’intonaco delle pareti e che fissavo salire, tra un pensiero e l’altro, fino a perdersi in vortici ogni volta diversi all’acme del soffitto. Mi sentivo piccola, tanto piccola, in quel mondo chiuso dal mondo, tra la sensazione scomoda di starci bene e, nello stesso tempo, di starci troppo stretta. Poi mi perdevo tra i quadri, tra le figure lineari e non che, in un modo o nell’altro, mi hanno cresciuta, hanno plasmato il mio occhio, il mio gusto, la mia visione del mondo. Lì mi sentivo a casa, tra i pareri e i giudizi che la mia mente annebbiava per il terrore di esprimerli, nell’impressione straordinaria che per concentrare respiri e sentimenti bastasse così poco: gesti, sicurezza nello scorrere le dita l’una accanto all’altra, sforzo, sudore, immaginazione, tempo. Quello era il mondo in cui amavo ritrovarmi. E fa sorridere pensare come quel mondo, quello stesso mondo che mi riempiva lo sguardo di soggezione e stupore, fosse stato vissuto e respirato da personalità straordinarie che, pur tanto più grandi di me, lo avevano sentito allo stesso modo. Con questo lavoro, “50 anni in foto”, ho conosciuto la “galleria di papà e di Lelio” come mai era stato possibile. Ho calcato la strada di anni di storia, ho visto volti, sorrisi, sguardi di chi la Galleria l’ha vissuta e l’ha portata con sé. Ho ritrovato Lelio, le sue espressioni di sempre e i suoi cambiamenti; ho scorto la bellezza incantata di un mondo aperto alla vita, alla città, alla realtà fuori. Ho avuto intenzione, con la mia prima esperienza di laureanda, di fare un tributo a quelle pareti che mi hanno vista crescere e che amo e odio come si fa con un genitore che si ha sempre timore di deludere e di non rendere mai davvero orgoglioso di sé. Penso che questo sia e dovrebbe essere il senso del volume: squarciare quel velo di soggezione e chiusura che l’universo della Galleria trascina con sé come un’ombra scomoda e ricordare quanto invece sia in grado di aprirsi alla realtà, alle vite, al mondo fuori. Hanno sfiorato quel pavimento tante di quelle vite che al solo pensarci gira la testa. Vite differenti, contorte o meno, che hanno colorato quei momenti con l’aura perfetta e imperfetta del loro esserci. Vita, movimento, pur nel silenzio di un quadro, di una parola non detta per timore o noncuranza. Vita. La vita di cui anch’io ho fatto parte, tra una stagione e l’altra, tra allontanamenti e riavvicinamenti. Non sono all’altezza di tutta quella storia; non lo sarò mai, ma lo sono le mie sensazioni, ciò che ho imparato e che imparerò ancora. Mi piacerebbe che tutti potessero vedere la Galleria come la vedo io, come la vedeva quella ragazzina che, pur ferma nei limiti del suo timido silenzio, credeva che in quel piccolo mondo tutto fosse possibile. Non mi sentivo mai abbastanza in quella galleria che mi toglieva il fiato senza capire il perché. Ma poi, paradossalmente, l’ho capita davvero lasciandomi andare e lasciandola andare, guardandola con occhi diversi. Sono cresciuta ormai e non mi fa più paura perché, per quanto non potrò mai sentirmi all’altezza di tutto ciò che è passato lì dentro, ora so che ci sono passata anch’io e che non fa differenza. È solo vita, come la loro, anche la vostra, anche la mia. Ed è una vita che da sempre mi porto dietro e che, fino a quando avrò gli occhi per vedere, sarà comunque e pienamente parte di me.
Francesca Adiletta