L’attrice e regista Elena Bucci conclude questa sera, alle ore 21, il suo laboratorio per il Napoli Teatro Festival nella Chiesa di Sant’Eustachio
Di OLGA CHIEFFI
Ci eravamo lasciati, qualche giorno fa, nell’atrio della nostra cattedrale, con il “taglio” di La Ciura, tentando insieme a lui formule d’indicibile, immersioni nelle acque informi e nelle grotte della mente, il tuffo cartesiano “in acque profondissime”, ritrovandoci, alla fine, rigettati sulla riva dell’umano e del senso del mondo, inseguendo la coda biforcuta della sirena Lighea. Questa sera, alle ore 21, nella Chiesa di Sant’Eustachio, Elena Bucci, elemento del nucleo storico della compagnia di Leo De Berardinis, si porrà a suo modo sulle tracce di Ulisse e del mare, oggetti del suo laboratorio per il Napoli Teatro Festival. La parola chiave è naufragio, naufraghi: l’artista ha invitato i partecipanti al laboratorio a condurre una ricerca personale sulla scrittura, a partire da testi che fanno riferimento ai naufragi, sia reali che personali. Il mare è uno, è assoluto, sia per Ulisse che per i migranti contemporanei, per i colonizzatori e i velisti in solitaria, nautica nave noise e nausea, sono della stessa famiglia, non bisogna stupirsene, il mare suona. Non intendiamo mai tanto bene ciò che chiamiamo rumore di fondo del mare. Il suo suono ci attira verso ciò che sopravvive e persiste come risorsa culturale e storica capace di resistere, turbare, interrogare e scardinare la presunta unità del presente. Delle geografie sensoriali si disegnano mappe, proprio come accade per i monti, i fiumi, le pianure. Ma è una cartografia che sovverte le certezze, invece di fissare coordinate precise. Così, niente di più fluido ed evocativo di un paesaggio acustico, quale è il mare, perché dai suoi suoni trapelano storie, quali quelle dei naviganti, dei migranti, di tutti gli uomini che comunque sfidano il suo piano orizzontale, vivo, con la loro densità affettiva e la loro costitutiva eccedenza rispetto al tempo e ai luoghi. “Ancora terre straniere/forse ci accoglieranno: smarriremo/la memoria del sole, dalla mente/ci cadrà il tintinnare delle rime./Oh la favola onde s’esprime/la nostra vita, repente/ si cangerà nella cupa storia che non/si racconta!”. Ci viene incontro il Montale di Ossi di seppia, col suo linguaggio poetico, linguaggio di nascite. Elena Bucci, nel suo laboratorio marino, con dieci “naufraghi” tra attori professionisti e non, tenterà di raccontare delle situazioni. Vi sono situazioni di difetto, in cui il difetto si equilibra o riassorbe per piccole compensazioni e aggiustamenti, ve ne saranno altre in cui il difetto ha come brama di squilibrarsi ancora di più, di toccare la sua esuberanza di nulla: è ciò che accade all’esperienza d’informulabile nel linguaggio, quando la resistenza dell’indicibile ci fa toccare il fondo. “Però ne la giustizia sempiterna/la vista che riceve il vostro mondo,/com’occhio per lo mare, entro s’interna;/ che, ben che da la proda veggia il fondo,/ in pelago nol vede; e nondimeno/ègli, ma cela lui l’esser profondo”. (Dante “La Divina Commedia” Par., XIX 58-62) E’ il mare quale semplice sterminatezza che inghiotte e abolisce sia il positivo che il negativo: andare dietro a quel “fondo” (alla verità, all’essere) significa naufragare, perdersi dietro al nulla, venir meno, fino a morirne, per cercare di “rinascere”.