Oggi, alle ore 21, sul palcoscenico del Centro Sociale “R.Cantarella” verrà rappresentato Amleto FX, una rilettura di Gabriele Paolocà
Di OLGA CHIEFFI
Opere come “Amleto” sono, e rimangono, fonti inesauribili di senso, testi in grado di mostrare sempre nuove forme, nuovi apici emozionali e nuovi abissi, capaci di offrire illimitate prospettive di sguardo, luci e ombre inaspettate che si rivelano e, dopo secoli, ancora stupiscono. E’, però, altrettanto vero che attingere a tanta linfa e pienezza di significato non è per nulla facile e occorre usare cautela e acume per avvicinarsi a quelle parole, coglierne la straordinaria vitalità e densità e saperle restituire a una platea contemporanea. Il dramma dei drammi, la vicenda del principe danese, che è metafora, secondo declinazione: dell’uomo moderno; della macchina teatrale; del complesso edipico; dell’eroe–antieroe ben conscio dell’infinita vanità del gesto e, dunque, deciso a tuffarsi nel gioco scenico, in spregio alle realtà del delitto e della vendetta, sarà di rappresentato questa sera, alle ore 21, sul palcoscenico del Centro Sociale “Raffaele Cantarella” di Salerno, quinto appuntamento della stagione di teatro contemporaneo Mutaverso, ideata e diretta da Vincenzo Albano. L’omaggio al grande bardo nell’anno celebrativo dei quattrocento anni dalla scomparsa, è stata affidata a Gabriele Paolocà e al suo Amleto FX, una produzione della compagnia VicoQuartoMazzini di Bari. Si tratta di un’originale rilettura del più classico e amato dei personaggi, del quale vengono prese in causa le qualità caratteriali. Amleto anima nera, solitaria, dubbiosa, problematica ed enigmatica, prigioniera del suo dolore notturno, dal quale non riesce a spogliarsi. Il principe di Danimarca viene catapultato nella nostra contemporaneità e il risultato è un grottesco pagliaccio, patetico e dolente, ironico e profondo, vicino al cuore per semplicità e verità. Le maschere del dolore, i suoi stati d’animo, si manifestano sulla scena (una stanza dalla quale interagisce con il mondo) attraverso una conversazione Skype, una chat da social network, e il testo, mantenendo le vicende, si riempie di citazioni e di rimandi a grandi divi suicidi o a film da manuale. Gabriele Paolocà lavora sul testo originale ibridandolo, citandolo e parodiandolo, immergendolo in un bagno di multimediale e “post-tutto” contemporaneità. Soprattutto costruisce una rappresentazione perfettamente tagliata sulle sue doti attoriali, sulla capacità di variare i toni, di cambiare voci e travestimenti, di calibrarli sui più diversi registri, di mimetizzarsi in un’ampia e svariata nebulosa di citazioni e rimandi. Ci sono Marylin e Amy Winehouse, Facebook e il grunge, i Joy Division e Robin Williams nella stanzetta di Amleto. Ma con intorno tutta questa folla di fantasmi – a ben vedere l’unico fantasma che manca è il canonico spettro paterno – Amleto è solo. Ed eccolo qua lo spirito del bardo che si ripresenta, l’eterna modernità del classico per eccellenza ancora una volta rinnovata: nell’infinito variare degli effetti, delle funzioni-Amleto che ogni teatro di ogni città dell’Occidente mette in cartellone ogni anno, resta alla fine sempre in scena un uomo terribilmente isolato. Vivere o morire, essere o non essere, amare o dormire, ancora e sempre da soli, Amleto resta il simbolo dell’umana solitudine e quindi delle nostre insicurezze, anche nella versione con il teschio appare su di un notebook.