Questa sera, alle ore 18, verrà inaugurata la personale dell’artista ospite della Chiesa di SS.Addolorata
Di Olga Chieffi
Questa sera, alle ore 18, verrà inaugurata nella chiesa della SS.Addolorata, nel complesso Monumentale di Santa Sofia, una personale di Sergio Vecchio “Dorico: autobiografia di un viaggiatore notturno”, con testi in catalogo di Pompeo Paolo Mazzucca e Fulvio Irace. Tutto parte da una capanna di vetro capace di catturare ogni sfumatura di luce, dall’alba più tenue al tramonto più infuocato, dai colori lividi dell’albeggiare, al petrolio della notte, riscaldata da una semplice e fumosa stufa a legna, dove Sergio cerca la forma su infinite carte d’alici, il colore, crea e disfa, le sue terre, gli azzurri, i rossi, vive la sua tela, novello filosofo cinico sulle tracce dell’umido tartufi dei suoi affezionati cani e della loro condizione di felice autarchia, come la sua. Le sue tele raffigurano l’intero repertorio zoomorfo di uccelli, bufale, cavalli, cani, animali mitici che ama andare a schizzare in plein-air, quindi le “carte” di Acireale in un formato speciale di 100 per 120, manufatte proprio da Vecchio in Sicilia, i cartoni grigi e rigidi trattati con tecniche miste, per la maggior parte a carboncino, ma anche tempere, catrame, e olii. La mostra, è il riassunto del rapporto con la sua Paestum, un rapporto che nasce da lontano quando da bambino il futuro pittore alla stazione vede per la prima volta quella strana coppia, la Zancani Montuoro e Zanotti Bianco, lì per le loro prime ricerche archeologiche, e fu totalmente attratto dall’anticonformismo dei due archeologi in un luogo dove gli argomenti erano il raccolto dei carciofi e la vendita delle mozzarelle. Loro arrivavano con il treno, nacque quasi un’amicizia, e di lì la volontà di fare il pittore, tradendo la promessa di avviarsi agli studi di archeologia. Le sue figure, le dee, le bufale sono apparizioni che emergono nello spazio delle attese e del buio delle cose e ne rompono l’equilibrio, fissando l’evento e il racconto. Gli azzurri sono azzurri di una notte appena calata, illuminata dalla luna; i rossi, tramonti fiammeggianti sulla pianura e sui templi di Paestum. Gli animali – bufali, cani, uccelli – ci guardano coi loro occhi gialli carichi di stupore, mentre le figure umane, immobili e spesso cieche, sono superstiti di epoche remote. Tutto si lega e si slega in modo necessario, le sorti, sullo stesso terreno del mondo compiono il loro romanzo, simbolo della passione dei suoi più remoti pensieri. Le masse figurali non hanno necessità d’essere destrutturate: l’energia è unica e tutta interna e non può giungere alla forzatura, alla deformazione, alla caricatura; questo spazio specifico è la condizione formale di quella stabilità dell’immagine o di quella distribuzione della materia dei pieni e dei vuoti, che è il segno di Sergio Vecchio. La tecnica diventa emozione “fattiva” che la natura insegna solo se trasferita nella zona “crepuscolare” della memoria, dove il documento si trasforma in sogno. Un sogno della dea la quale, insieme ai suoi animali, sa di non doverne mai svelare l’enigma, di non sollevare il velo di un passato già violato, per salvarlo da sguardi di occhi che non sanno più vedere.