di Peppe Rinaldi
Ci sono storie, piccole e meno piccole, che diventano come il classico cesto colmo di ciliegie: ne prendi una e subito dopo ne tiri su un’altra, poi un’altra ancora e così via.
Come la vicenda del Palazzo Massajoli, una struttura della centrale via Umberto Nobile, che l’antica matrona, la signora Rachele, donò nel secolo scorso al comune di Eboli vincolandolo a una condizione essenziale, mancando la quale il «regalo» avrebbe perso d’efficacia. E pure di legittimità, come ha poi dimostrato il giudizio azionato da uno degli eredi. I locali del palazzo sono da destinare ad attività di salvaguardia, assistenza e integrazione dei bambini in difficoltà socio-economiche, oggi diremmo svantaggiati. Punto. Questa la volontà della donante, questo lo speculare obbligo e dovere giuridico del donatario, cioè il Comune: il quale ha sì ospitato all’interno alcuni uffici genericamente definibili come «assistenza sociale» – contesto non sovrapponibile allo spirito della donazione ma pur sempre affine – ma, nel corso degli anni, in quella stessa struttura sono apparse attività di altra natura, tra cui una commerciale destinata agli aderenti di un sodalizio lì ospitato, oltre a benemerite attività di associazioni private convenzionate. Un erede di Massajoli, Nicola Albano, affidatosi alle cure dell’avvocato Antonio Zottoli, dopo una pirotecnica battaglia legale è riuscito a spuntarla tornando in possesso del bene: va aggiunto che la reintegra è avvenuta al prezzo di uno sfratto realizzatosi con l’intervento della forza pubblica, i carabinieri, quasi si trattasse della solita storia di sfratti e occupazioni privati. Un Comune dovrebbe evitare situazioni imbarazzanti, per così dire.
Il processo civile in corso (per risoluzione di donazione modale) ha dunque accertato, in due turni, che il Comune è inadempiente e che, quindi, il bene debba tornare nella disponibilità del donante, dunque dei suoi eredi nelle relative vesti giuridiche.
Il retroscena
Non è tanto l’aspetto tecnico-procedurale a incuriosire quanto, piuttosto, il piccolo retroscena che ha governato le fasi della disputa legale nel corso del tempo. Come la scelta del patrocinante di parte pubblica. Tutti sanno che l’affidamento di incarichi legali è uno di quei terreni scivolosi che qualificano spesso una pubblica amministrazione. La tentazione di far lavorare amici, parenti e clientes vari, seppur respinta a chiacchiere da tutti (o quasi), in realtà è tra le più potenti, perciò a volte può essere fatale, altre perfino letale, per l’affidante più che per l’affidatario. Quasi l’ente non avesse un ufficio legale, quasi si trattasse di una complicatissima causa per palati accademici di rango, il Comune ha pensato, “visto quest’articolo” e “visto quest’altro comma” di rivolgersi a un avvocato esterno. Lo poteva fare? Certo che sì, a condizione che non ci fossero figure interne capaci di patrocinare, oppure che la delicatezza della materia non richiedesse l’intervento di soggetti qualificati diversamente rispetto al ceto impiegatizio. Ora, l’incaricato «de quo», rispettabilissima figura, come tutti, risulterebbe essere amico di vecchia data, amico di famiglia come si diceva un tempo, di un importante esponente dell’amministrazione. Ora, sarà stata una coincidenza, sarà stato un caso, sarà stato questo, sarà stato quello, sta di fatto che il Comune ha indicato con atti formali un professionista notoriamente «intimo» di un amministratore, per patrocinare una causa civile che poteva essere fatta in casa, evitando oltretutto dispendio di risorse. Infatti, la causa era iniziata con gli avvocati del Comune ma in corso d’opera la staffetta è passata all’esterno.
Alla fine, il Comune perde il giudizio due volte, opponendo, tra l’altro, una serie di resistenze che, a giudizio di numerosi tecnici interpellati, erano palesemente superflue, in certi casi senza fondamento. Per farla breve e per farci capire dai nostri cinque lettori: il giudice condanna con sentenza immediatamente esecutiva? Allora il Comune fa opposizione all’esecuzione, procedura che il codice contempla a condizione che la sospensione venga chiesta sulla base di elementi nuovi, determinanti, significativi, insomma tali da meritarsi che l’ordine del magistrato possa essere sospeso per ordine di un altro magistrato: nel nostro caso pare non ce ne fossero. La resistenza «a schiovere» fatta dal Comune, poi, sembra sia stata anche oggetto di ironiche reprimenda da parte del giudice interpellato, ma questo è un elemento di colore. Allora, perché il Comune ha fatto lo stesso l’opposizione? In genere, gli avvocati, ogni carta che muovono, ogni lettera che scrivono, ogni pensiero che producono se lo fanno pagare, giustamente. In questo caso? Certo non paga l’amministratore che ha conferito l’incarico, sempre che lo spettro della Corte dei Conti non si rifletta in qualche specchio municipale. Significativo, ancora, è stato l’ultimo tentativo (sempre a pagamento) dell’ente: non sapendo, forse, più a quale comma votarsi, il Comune ha proposto la strada dell’usucapione, cioè di quell’istituto giuridico secondo cui il possesso ininterrotto di un bene per un certo periodo di tempo trasforma il possessore in proprietario. Lapidaria la replica del giudice della II Sezione civile, Giulio Fortunato, che – tradotto in parole povere – ricorda al ricorrente, cioè al Comune, che non essendo ancora passata in giudicato la sentenza d’appello, esso è formalmente ancora «proprietario» del bene, anche se è stato liberato, e, pertanto, non c’è alcun interesse ad agire. Un modo come un altro per dire: dovresti saperlo che sei ancora il proprietario, dove me la «azzecchi» ora questa procedura in veste di possessore? O sei possessore o sei proprietario.
Diritto, non sociologia
Dalla ricostruzione che questo giornale è riuscito a compiere, un giorno d’udienza comparve in aula, accanto all’avvocato incaricato, il sindaco di Eboli, l’avvocato Mario Conte. La parte aveva chiesto di conferire dal vivo. Quando in una causa civile si chiede di interloquire in presenza significa che è spuntato un elemento di novità che necessita di essere illustrato. Quella mattina, però, il giudice ebbe da ridire subito udendo le ragioni esposte – peraltro senza che il magistrato lo avesse richiesto – dal primo cittadino, che provò a convincerlo per ragioni di ordine sociale, economico, di tutela delle fasce deboli, etc. Il giudice, raccontano i testimoni, forse infastidito dalla condotta inconferente sin qui mantenuta, esclamò suppergiù questa frase: stiamo facendo un processo civile, dobbiamo risolvere questioni giuridiche, non politiche né sociologiche.
Questa causa agli ebolitani è costata, sinora, tra i 15 e i 20 mila euro, non una cifra esagerata. Si tratta degli emolumenti per il legale esterno, non vanno considerate le spese derivanti dalla soccombenza nel giudizio in favore degli eredi Massajoli e del loro avvocato. Quest’ultimo pare abbia atteso due anni per vedersi riconosciuta parte dell’onorario. L’avvocato del Comune, invece, è stato pagato subito, ad horas si direbbe.
Non ci sono altre domande, vostro onore.





