Olga Chieffi
Quando il “dialogo” tra gli strumenti e le voci, continua nell’immediato tra cibi antichi e presidiati e buon vino, ci si trova ad essere “in scena”, accanto ai musicisti e agli organizzatori di San Michele in Musica. La rassegna autunnale, giunta alla seconda edizione, voluta dalla Fondazione Carisal presieduta da Domenico Credendino, ed ideata e sostenuta dall’Associazione Gestione Musica presieduta dal violoncellista Francesco D’Arcangelo e diretta dal pianista Costantino Catena, è stata tenuta a battesimo dal trio Nardini, composto dalla violinista Linda Hedlund, unitamente al cellista Giuliano De Angelis e ad Alessio Falciani al pianoforte, sulle note di Mendelssohn e Piazzolla. Il trio ha eccelso in particolare nei primi due tempi del Klaviertrio op.49 in Re Minore, composto da Felix Mendelssohn Bartholdy, il Molto allegro e agitato e l’Andante, sottolineando sia la componente orizzontale melodica e cantabile che un giovanissimo Mendelssohn, a volte, spezza e verticalizza, ma che sboccia in maniera meravigliosa soprattutto nei tempi lenti, sia nelle isole di pathos, riservandosi la libertà di seguire ciò che la musica suggerisce alle loro sensibilità, anche nei momenti di scrittura più ardita. Mendelssohn era romantico di spirito, di ideologia, di tecnica compositiva, era un anticlassicista per principio, che recuperò sì certi principi classici del comporre, ma che mantenne nella sua poetica il primato dell’ ispirazione del discorso che si struttura in base a regole intuitive. Il trio Nardini ha il gusto di procedere liberamente da una nota all’altra, da un episodio all’altro, senza doversi preoccupare del rapporto di simmetria tra ciò che è stato, ciò che è, ciò che sarà, mostrando una continua e avvincente intensità di canto, le cui accensioni e i cui struggimenti hanno gettato sullo sfondo la precisione del ritmo, la costanza del tempo, la coesione complessiva della forma, per innervarlo di passionalità con cui ha tracciato nella forma, sentieri netti, riconoscibili e sicuri. Fuoco e Passione, questo il titolo della serata, ha avuto il suo clou nell’esecuzione delle Cuatro Estaciones portene di Astor Piazzolla, in cui abbiamo scoperto una musicalità istintiva, non irrigidita in alcun modo dalla formazione accademica né foriera di una comunicatività imbrigliata in mediazioni concettuali di sorta. Abbiamo percepito, al contrario, un qualcosa che arriva dritto alle viscere del nostro sentire per il tramite di una sensibilità squisitamente morbida e sensuale, ma che è riuscita a diventare fieramente leonina nei momenti culminanti, in antitesi alla dolcezza mostrata nei frangenti riflessivi, ripieganti nella malinconia. “Le Cuatro Estaciones Porteñas” sono una quaterna di composizioni di tango originariamente concepite non come una suite, realizzate per un quintetto di violino (viola), pianoforte, chitarra elettrica, contrabbasso e bandoneón, quella che in sostanza era la formazione nella quale Piazzolla si esibiva, quindi trascritte in tantissime versioni dall’orchestra, al trio appunto. In una trascrizione del genere il grande assente è risultato proprio il bandoneon. Il pianoforte non ha tentato minimamente di evocare quello strumento, che sa dare quell’acre di “limone”, come amava ripetere proprio Astor Piazzolla, segnando la sua musica con momenti regolarmente in bilico – dato caratterizzante della musica argentina – fra un lirismo allentato e dolente, talora fino alla rarefazione, e picchi di alta drammaticità e forza penetrativa, pagine che fanno parte del sentire di tutti noi, il cui segreto è completamente svelato nella loro introduzione, in cui il pubblico rimane incantato, nel suo non offrirgli troppo facili, e in fondo rassicuranti, appigli transtilistici, ma calandole in un ideale momento di sintesi tra i molteplici rimandi che il musicista intende riecheggiare nel suo stile. La ricchezza dell’apparato tematico dell’ opera di Piazzolla, è stato vivificato in particolare dal cimento dell’invenzione dei due archi, nonché dalla propensione trasparente per un eloquio diretto, in cui la perizia strumentale ha prevalso sullo scavo concettuale e sulla transidiomicità del repertorio tematico, fino a giungere al bis, tra gli applausi entusiasti dell’attento uditorio. Il trio ha scelto il lento, dolcissimo, a tratti struggente, Oblivion, che Piazzolla scrisse nel 1984, per la colonna sonora del film Enrico IV, di Marco Bellocchio, senza alcun autocompiacimento nella sua lettura, anche se si sarebbe portati facilmente a cadervi, ma eseguito con incedere rigoroso, mai stereotipato e volto a sottolineare ogni atmosfera con meravigliosa flessibilità, nella più totale assenza di metronomicità. Tango Nuevo, quindi, introspettivo, dominato da un’innovazione declinata verso la ricerca ritmica e, soprattutto, melodica, nella composita anima del Tango Argentino, disseminata di contaminazioni ed effettistica, offerta per il tramite di strumenti che non sono legati alla tradizione di quel Paese. Qui, durante l’intera seconda parte, gli archi hanno suscitato l’emozione con rapidissimi glissando e la sofferta melodiosità del violoncello, dal suono incandescente. Limpida, quindi, la lettura delle opere, sostenuta da un corretto equilibrio d’insieme e animata dal bel suono, dalla coerenza sia delle proporzioni che della misura espressiva, tenendo, a volte, un po’ imbrigliata l’emozione, in particolare nelle stagioni, per poi imprimere il proprio segno musicale a quel dialogo a volte nostalgico, a volte leggero, tra i tre strumentisti, quasi intrecciando una perturbante e sensuale danza d’amore, perturbante come è tutto ciò che rimanda a pulsioni ancestrali presenti nell’inconscio collettivo, perturbante, quindi l’ancestrale e il primitivo, che in Piazzolla si sono fusi senza iati con la musica alta costituendo anzi, una sorta di sfera armoniosa nel quale gli elementi costituenti la struttura risuonano per simpatia; musica alta, che il trio ci ha ricordato costantemente non essere in conflitto ed incompatibile con la musica popolare delle radici. Il tango va consumato esattamente nell’interludio tra la mancanza e la pienezza, essendo una forma di sopravvivenza, una maniera di riconoscersi e rappresentarsi, di esorcizzare la nostalgia, l’abbandono, il senso di estraneità. Una delle condizioni più stralunate e poetiche della cultura latinoamericana, della cultura pronta a nuove ibridazioni e acclimatazioni, che si è addentrata ormai in chissà quali sobborghi della nostra anima. Applausi e diverse chiamate al proscenio prima di concedersi nelle mani dei protagonisti del momento della degustazione. Un wine party, a cura di Daniele Graziano, DgExperience e Sabrina Prisco, Osteria dei Canali, tutto preparato al momento, ovvero “Focaccia con burrata, crudo e fichi”, “Risotto con gorgonzola, speck, fichi e noci con glassa di fichi”, “Boccone di baccalà con alloro, arancia e “ficoliva”, “Mini Wrap di pollo grigliato con misticanza, sedano, fichi e aceto balsamico” e per chiudere “Fico farcito con caprino e menta”, abbinati con estrema eleganza ai gioielli della cantina Zorzon G&P il Ribolla Gialla Venezia Giulia Igt, il Friulano, il Merlot Collio. Un momento conviviale, nel senso classico, dove in uno spazio particolare, certamente abitato dal genius loci, si è cominciato a dialogare sul concerto, sul vino, divenendo punto di pensiero che, per essere se stesso deve discernere, giudicare, orientarsi, criticare, apprendere, confrontarsi, costruente, con certezza, una società migliore.





