Olga Chieffi
Questa sera, alle ore 21,30, Stefano Bollani, Dado Moroni e Danilo Rea saranno per la prima volta insieme per un omaggio al pianista canadese Oscar Peterson, a cento anni dalla nascita, una dei capiscuola del jazz. E’ questo, uno dei progetti principale della LXXIII edizione, un concerto, che, ci piace pensare, sia nato dalla mente dell’indimenticato Elio Macinante. Peterson costituisce, quindi, lo spunto per questo inedito incontro che non sarà un “semplice” concerto celebrativo, ma una condivisione spontanea di tre interpreti molto diversi per stile e percorso, accomunati dalla profonda conoscenza del linguaggio e dello stile del Canadese. Era “soltanto” un magnifico virtuoso, capace di trasformare qualsiasi canovaccio musicale in un’opera originale tutta sua, sia che suonasse da solo, in trio o con gruppi più o meno numerosi. E al virtuoso puro gli appassionati e gli esperti, talvolta dilettanti, non erano preparati. Pochi erano disposti a credere che Peterson, da giovane, fosse un atleta che poteva, approfittando della statura altissima, schiacciare la palla nel canestro alzandosi appena sulle punte dei piedi. Negli ultimi anni era diventato enorme, pachidermico e si muoveva a fatica. Dei vecchi tempi gli erano rimasti gli occhi buoni che tradivano l’insicurezza interiore, la facilità alle depressioni, e fino al 1993 le mani grandi e agilissime, capaci di coprire tredici tasti del pianoforte. A 14 anni, quindi nel 1939: Oscar Emmanuel Peterson nasce a Montreal il 15 agosto 1925 ha il primo importante incontro musicale della sua vita con il pianista Art Tatum: “E’ il mio maestro e amico – ha sempre ripetuto –, la persona più stupenda che io abbia conosciuto, il pianista migliore dell’intero arco storico del jazz”. E’ un giudizio che si può tuttora condividere. Sapeva di continuare il messaggio stilistico di Tatum e ne era orgoglioso. Si riteneva un pianista tradizionale, sebbene si fosse affacciato alla ribalta con il jazz moderno nella seconda metà degli anni Quaranta. In realtà, Peterson era al di fuori e al di sopra delle mutazioni degli stili. Gli piaceva che il contenuto emozionale si coniugasse con la preparazione formale, con il bel suono, le forme giuste e le proporzioni definite. Per conseguenza non amava colleghi pure eccellenti quali Thelonious Monk e Cecil Taylor. Il secondo incontro fondamentale di Peterson è con Norman Granz, il principe degli impresari di jazz scomparso nel 2001, che lo scopre per caso nel 1949 ascoltandolo dalla radio di bordo di un taxi. A partire dal bop si è dunque creata una mitologia dell’improvvisazione, una narrazione, tutta occidentale e tutta (anche ideologicamente) di derivazione post-romantica europea. Essa concepisce e accetta solo la versione più estrema e radicale della composizione istantanea e ha operato una conventio ad excludendum nei confronti di quegli interpreti che, per volontà o per caso, non rientravano in una estremizzazione che, con la predilezione per l’hic et nunc, non solo ha favorito una perenne sopravvivenza di avanguardie che linguisticamente non erano più tali da decenni, ma anche l’incultura di una progressiva cancellazione del passato non aderente ai canoni prefissati. L’approccio di Peterson implica una meticolosa preparazione all’improvvisazione: molto è affidato al caso, altrettanto non lo è, e queste due realtà, invece di confliggere, vengono accuratamente elaborate in modo da coincidere. Ciononostante, Peterson raggiunge, tramite l’evidenza di una tecnica imponente, che pure mai difetta di swing, la stessa teatralità che Erroll Garner sapeva raggiungere per vie diametralmente opposte: il letterato e l’illetterato, il tecnico e il pre-tecnico, si prefiggono, per le vie della loro tradizione, lo stesso scopo, cioè una narrativa, uno storytelling. Le diverse epoche e performances di Oscar Peterson hanno creato, attraverso peculiari articolazioni dinamiche, articolato equilibrio fra tessiture, sofisticazione timbrica, ricchissima facondia interpretativa, un flusso narrativo fra i più significativi nella storia della musica improvvisata africana-americana derivante dallo stride e dal be bop. Alcune introduzioni pianistiche petersoniane a interpretazioni di standard rappresentano vertici dell’arte improvvisativa e ricompositiva, sia per rigorosa logica strutturale che per rigogliosa ricchezza melodica e unificante quanto complessa varietà ritmica sua naturale esorbitanza, non poteva che rappresentare un esempio fino ad ora unico e forse irripetibile.





