Olga Chieffi
Oggi siamo molto soli – affermava il filosofo napoletano Aldo Masullo – non nel senso che la solitudine sia un’eccezione, perché è una dimensione propria dell’essere umano, ma siamo soli perché isolati, ognuno chiuso nella propria monade, incapace di rapportarsi all’altro in modo aperto e carico d’amore. La filosofia è l’opposto di questa situazione, perché è costitutivamente dialogo”. Masullo rivelò che lui pensò di salire in politica, politica, naturalmente nel senso greco, non concepita nell’accezione attuale, che è unicamente ricerca del potere, a causa di una cattiva “paideia”, che ha portato ad una società dei conflitti, alla produzione di “Legni storti”, per dirla con Kant, per una mancata educazione all’umanità positivamente intesa, ma in effetti vi scese, trovandosi in un contesto che tradiva ciò che era il senso dell’intera sua vita, toccando con mano la deprivazione pathica, insensibilità alla differenza, che ha il suo fondamento nell’illusione della ricerca di un senso della vita nelle cose in-differenti e non, piuttosto, nell’evento del sentire, nell’emozione vissuta. Pensiero che sfocia nel pericolo supremo del cedere all’indifferenza del sentire, all’insensibilità emozionale, e nel non inorridire dinanzi al vuoto dell’assenza di sé, paventando la sparizione del mondo. I filosofi sopravanzano sempre tutto e tutti e martedì sera, alla Reggia di Caserta, per ascoltare la Traviata, un capolavoro rappresentato nella bellezza architettonica assoluta, abbiamo dovuto superare picchetti armati, metaldetector e cani anti-esplosivi per l’in-differenza nei confronti dell’arte, di due grandissimi musicisti, Daniel Oren, che era sul podio e Valery Gergiev, al quale il resto del mondo, non la Campania, ha chiuso le porte in faccia, contestando anche l’israeliano, lasciando la musica d’un canto. Quindi, martedì sera, tutti abbiamo “pathito” con il Maestro Oren, l’orchestra, il coro e l’intero cast, vivendo maggiormente l’emozione dell’ “istante”, calati in quell’opera che definiamo con Barilli, “muore d’amore”. La Violetta di Gilda Fiume, ci ha riportati vicino all’arte del prendere i fiati, di governarli più per segreta intelligenza che per tecnica, il soprano ha incendiato la platea per il senso, l’espressione corporea della sua voce, per il suo gioco d’emissione, le difficili colorature, senza alcuna avversativa e per tutti e tre gli atti: non è semplice cantare Verdi, bisogna aver coscienza e mezzi per far sciogliere la cabaletta come un gomitolo d’argento sull’agonia d’una burrasca, di colpo il senso drammatico del personaggio deve essere rovesciato addosso allo spettatore, ma tratteggiato con contorni che più nitidi e puri non possono essere. Non manca a Stefan Pop, il quale ha indossato i panni di Alfredo, la baldanza tenorile, ma la sua voce e il suo stile di canto necessitano ancora di aggiustamenti, per poter avvicinare il ruolo di Alfredo, in particolare in un contesto così alto e qualificato: deve ancora lavorare parecchio sul fraseggio, poichè sono venute a mancare le sfumature, gli accenti del dialogo, la dizione, la coloritura delle ombre, tristemente presaghe nelle dolorose riflessioni cromatiche sin dall’inizio, e che è stata caratteristica della lettura oreniana. La Traviata ha vissuto il suo momento più alto certamente nel secondo atto, in cui ha troneggiato su tutto e tutti Giorgio Germont, cui ha dato voce un eccellente Ariunbaatar Ganbaatar, il quale ha dato il giusto tono al perfetto esempio di espressività melodica e vocale che è il dialogo tra Violetta e Germont, giocato sul saper muovere una sola voce, una linea melodica in modo assoluto, pur con una originalissima libertà di andamenti melodici con cui le voci, sempre tanto lontane dalla rigidità d’una forma chiusa, quanto dall’aridità d’un recitativo tradizionale, si spiegano docilmente ad esprimere i più opposti ed instabili atteggiamenti dell’animo. Il picco si è avuto nel “Piangi…..piangi!” e applausi a scena aperta in “Di Provenza il mare, il suol”. Daniel Oren ha l’ istinto e la razionalità dei giusti tempi, sia in senso strettamente musicale, sia sotto il profilo drammatico sia, infine, nel rapporto con la tradizione. La sua tendenza alla sobria o concitata serratezza si accompagna alla rara capacità di dar aria al canto, nel rallentare e impellere in ciò che è accompagnamento, solo di nome, nonché nel risolvere all’istante anche l’attacco del primo oboe di una misura in anticipo nel “Dite alla giovine si bella e pura”. L’orchestra, ha ben esaltato il crescere dell’agitazione, la falsa quiete, la tristezza e il subitaneo erompere della passione, con intensità e movimento di suono. Attesi i soli del clarinetto di Luigi Pettrone, il ricordo, e del violino di Mirela Lika, simbolo di una morte ormai fin troppo vicina e consapevole sulla lettura della lettera di Giorgio Germont da parte di Violetta, non hanno deluso. Resta lirica all’aperto, però, microfoni pericolosamente ad archetto, non tra i capelli, tanto riverbero specialmente nei fiati e archi lasciati alti dopo il preludio al III atto. Abbiamo ritrovato la voce di Miriam Tufano in Flora, la Annina di Miriam Artiaco, il Gastone Vincenzo Peroni, il barone Douphol di Donato Di Gioia, Il Marchese d’Obigny Costantino Finucci, il dottor Grenvil Carlo Striuli, Giuseppe Paolo Gloriante, un domestico di Flora Michele Perrella, un commissionario Antonio De Rosa, unitamente al coro che sta cominciando finalmente a “girare” sotto la guida di Francesco Aliberti, il quale riesce ad assolvere le richieste di effetti e colori del Maestro Oren, non ultimi quello della “lontananza”, sia della attenta banda di palcoscenico, che del coro di strada nel finale. Brillanti e in perfetto stile le danze del carnevale, coreografate da Pina Testa con Anna Chiara Amirante e Alessandro Staiano assoluti protagonisti. Apprezzata dal pubblico la regia di Riccardo Canessa e le scene di Alfredo Troisi che hanno giocato con gli elementi architettonici della residenza borbonica, sfruttando il retropalco anche nel III atto con i figuranti con in volto la maschera della morte. Un quadro ottocentesco, dal sapore antico, attraverso mezzi moderni, in cui i personaggi, questi prigionieri del melodramma hanno, ancora una volta compiuto, il loro viaggio.





