Don Aniello Manganiello e il fenomeno baby gang - Le Cronache Ultimora
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Don Aniello Manganiello e il fenomeno baby gang

Don Aniello Manganiello e il fenomeno baby gang

di Silvia Siniscalchi

 

Al Sud si ammazza per poco, per niente. Basta guardare una ragazza che non è la tua. E a macchiarsi di tali orribili delitti sono, in genere, adolescenti che appartengono a famiglie disgregate, più o meno aderenti all’universo camorristico. Ragazzi che non hanno linguaggio e parlano con il coltello o la pistola. Non sono, però, in senso tecnico, i delitti di baby gang, che invece esistono soprattutto al Nord e tolgono la tranquillità a interi territori prigionieri della paura.

Don Aniello Manganiello, parroco di Scampia e Garante del Premio Paolo Borsellino, vive da molti anni tra i giovani borderline, ne salva molti, ha scritto con Andrea Manzi un libro (“Gesù è più forte della camorra”, edito da Rizzoli) che racconta di insperate conversioni. Dalla droga e dalle rapine, tanti ragazzi, grazie a lui, sono diventati operatori di pace e salvano a loro volta altri coetanei.

 

Don Aniello, perché la baby gang è una espressione delinquenziale allarmante del Nord e non del Sud?

Al Sud interi territori, nonostante l’apparente tranquillità, sono letteralmente occupati dalla malavita. Mafia, ‘ndrangheta e camorra esercitano un capillare controllo sociale, finalizzato ad evitare ogni fenomeno apparentemente allarmante. Un camorrista che gestisce un’area non potrebbe mai tollerare una delinquenza frutto di impulsi irrefrenabili e non giustificata da una utilità concreta. Al Nord, invece, dove il controllo è esercitato prevalentemente dallo Stato, purtroppo la sicurezza è minore, perché mancano prevenzione e repressione, anche a causa della mancanza di mezzi e di uomini. Ma vi è anche un altro motivo: la scarsa conoscenza delle dinamiche sociopsicologiche che determinano l’esplosione improvvisa di atti di violenza.

 

Ma le baby gang delle grandi aree urbane o delle metropolitane di Milano, Torino, Genova sono innanzitutto frutto di un disagio piuttosto diffuso, al di là dei confini geografici della devianza.

Certamente esiste un disagio generalizzato, ma alcune esplosioni di violenza sono anche il frutto di culture, comportamenti e atteggiamenti legati ad altri paesi e altri territori. Lo affermo senza ombra di dubbio perché conosco il nord Italia da decenni. Ho operato a Milano e nel Varesotto per quattro anni. Quelle aree erano tranquille, laboriose.

 

Don Aniello, ma dicendo questo finiamo per gettare la croce addosso agli immigrati.

Assolutamente no. Però gli immigrati hanno creato problemi nuovi, dai quali non possiamo prescindere per un’analisi attenta del fenomeno. Quando gli italiani emigrarono in gran numero verso altri paesi d’Europa qualche criticità la portarono. Se i tedeschi impedirono a molti di noi di entrare nei bar, significa che qualche problema a quel tempo lo abbiamo creato. Molti nostri connazionali, non possiamo non ammetterlo, si comportavano male in Germania, così come in Svizzera. Poi, c’era la maggior parte degli italiani che era laboriosa, lavorava con convinzione e amore, si è fatta strada e, da una bettola o da una capanna ricevuta dal governo tedesco per abitare, si sono fatti le case e hanno dato dignità alla loro vita, si sono sacrificati, hanno espresso tanta intelligenza e si sono integrati. C’era però una parte di italiani che non ci ha fatto fare una bella figura.

 

Come leghiamo questa riflessione per così dire storica al presente?

Vi è una parte di immigrati che viene soprattutto dal nord Africa, dal sud e dal centro America che determina molto sfaldamento sociale. È una parte, per carità. Non sto dicendo nulla di nuovo. Se tantissimi peruviani, colombiani, sudamericani assistono malati e anziani – e lo fanno con passione e amorevolezza – vi sono altri, anche di seconda generazione, che qualcosa di negativo lo hanno portato, a cominciare dall’uso del coltello facile, che è una manifestazione alternativa rispetto al linguaggio “civico”, fatto di parole, silenzi e sguardi.

 

Sta mancando più la repressione o la capacità di integrare questi ragazzi?

Integrare non è semplice. Anche io, che gestisco un oratorio molto frequentato a Scampia, faccio molta fatica a integrare i giovani e soprattutto a motivarli. Ieri sera ho fatto una festa, la festa del Grest: c’erano i bambini, i genitori, ma mi ha molto meravigliato che vi fossero tantissimi adolescenti, da quattordici a sedici, diciassette anni.  Hanno ballato, cantato, si sono divertii, non hanno creato alcun problema e, alla fine, hanno aiutato a portare via anche i gazebo, a pulire il cortile. Sono rimasto felicissimo, l’ho detto anche agli animatori responsabili della festa che avevano preparato la scaletta dell’evento. Forse questa è una modalità: cancelli aperti, nessun controllo, chi vuole venire viene.

 

Quindi non è un problema di polizia?

Assolutamente no. Torniamo a Milano. Gli oratori hanno avuto sempre una grande funzione per i giovani. Ora non so quali siano i problemi per i quali essi non esercitino più tale funzione di inserimento e di guida. Una crisi inspiegabile. Non c’è più la funzione di aggregazione e di accompagnamento del passato. Questo è un dato inequivocabile. Gli oratori erano fondamentali per portare i ragazzi a gestire le proprie pulsioni, incanalarle nel quadro di una comunità vissuta come lo sbocco naturale della vita dei singoli. Io a Scampia, che non è una terra serena e facile nella quale operare, l’altra sera, pur avendo tutti i cancelli aperti non ho avuto alcun problema. Allora, forse, occorre rischiare. Ma, per farlo, c’è bisogno che molti si mettano in gioco, anche nei confronti delle bande di ragazzi sudafricani o latinoamericani.

 

Ma la Chiesa ha qualche responsabilità. L’opinione pubblica registra gli atteggiamenti virtuosi di tanti preti di strada, ma le gerarchie appaiono molto distanti da questi fenomeni.

La Chiesa, dove ha strutture e risorse umane da attivare per l’inserimento dei ragazzi, fa molto. Laddove non ci sono queste risorse e mancano preti, giovani volontari e strutture di accoglienza, finisce per latitare nelle attività pedagogiche e di recupero.

 

Non è che forse manchi lo spirito “profetico” di un tempo? Don Aniello Manganiello non ha molti mezzi, don Tonino Bello ne aveva anche meno, don Milani non ne aveva nessuno, eppure si salvavano tanti giovani.

Questo è vero e ci segnala una necessità. Dobbiamo andare avanti, al di là dei mezzi concreti, molto di cuore, con il cuore e senza pregiudizi, senza condannare un ragazzo prima di averlo conosciuto. Forse noi siamo condizionati dal pregiudizio, dal pontificare e dal condannare in fretta certi comportamenti, prima di entrare nella vita di un ragazzo e prima di aver compreso perché certi comportamenti deviati e anche criminali finiscano per diventare una terribile espressione umana.