Olga Chieffi
Mozart è un perenne interrogativo, anzitutto per chi lo ama. Ci si torna su continuamente come una matita si va su una moneta nascosta sotto un foglio di carta, sfregando e risfregando: la figura che appare, magari è sempre quella, ma il nero del lapis ora accentua una linea ora ne accentua un’altra, e tutto il resta sembra perso alla memoria, indecifrabile. Mozart ce lo guadagniamo ad ogni ascolto. Puoi canticchiare quasi senza accorgertene l’aria di Cherubino, “Voi che sapete che cosa è amore”, ma se scarti appena un po’ da quel grappolo di note con le quali sei sicuro di avere una consuetudine senza grinze, e cerchi di capirle, cerchi di avvertirne il senso non più semplicemente acustico, capisci che stai avventurandoti per le sabbie mobili. Non a caso citiamo le Nozze di Figaro, essendo l’interpretazione di Riccardo Muti, della sua ouverture, una delle massime esecuzioni moderne, poiché questa sera, nell’ appuntamento inaugurale della XXXVI edizione del Ravenna Festival, il Maestro, alla testa della sua creatura, l’Orchestra giovanile Luigi Cherubini e il violinista campagnese Giuseppe Gibboni, vincitore del Premio Paganini 2021,rampollo di una schiatta di eccellenti violinisti, a cominciare dal padre Daniele, s’incontreranno tra le note del genio di Salisburgo. Riflettori accesi nel pala De Andrè, alle ore 21, nel segno di Cervantes e Don Chisciotte, il cavaliere triste, il “puro folle” che fa dire allo scudiero Sancho Panza, “Donde hay música no puede haber cosa mala”, non lontane dall’idea di Josè Abreu, ideatore de El Sistema, che guarda al metodo dei nostri antichi conservatori di Venezia e Napoli. Un pensiero alla musica continuo quello di Riccardo Muti, e di Giuseppe Gibboni, un “daimon” mai sotterrato, nei confronti della ricerca musicale, dei propri strumenti, attraverso quell’inclinazione istintiva appartenente all’uomo come un’orma nell’anima. S’inizierà dal Beethoven dell’Ouverture Coriolano, in Do minore op. 62, composta nel 1807 quale introduzione al dramma omonimo di Heinrich-Joseph von Collin. Questa pagina è certamente una delle composizioni che meglio illustrano la straordinaria capacità beethoveniana di utilizzare il mezzo sinfonico quale veicolo ideale per esprimere l’essenza di un soggetto drammatico. Motivi concettualmente “significanti” combinati e sviluppati sul piano dell’opposizione dialettica vengono impiegati per sintetizzare la contrapposizione ideologica fra le aspirazioni individuali e la forza metafisica del destino che ispira il nucleo drammatico dell’azione teatrale, incentrato sulla rivolta eroica del guerriero Coriolano contro la sua stessa patria con i celebri violenti accordi iniziali che richiamano il climax della Quinta Sinfonia e il tentativo da parte delle sue donne di elevarlo nella sfera dei sentimenti nobili, con il dolce e consolatorio secondo tema in mi bemolle maggiore. Il clou della serata verrà raggiunto con l’esecuzione del concerto in Re KV218, una pagina assolutamente originale ed ispirata, che offre una notevole varietà di temi ed idee melodiche, facendo del movimento centrale lo scrigno per una delle più intense effusioni liriche. Introdotto da un energico coup d’archet, un motto di quattro battute, di tradizione nel Settecento all’inizio di una Sinfonia o di un concerto, l’Allegro vive tutto del contrasto tra il marziale primo tema e il secondo tema di carattere lirico, mentre il violino si produce in passi di carattere virtuosistico. Anch’esso in forma-sonata, ma senza sviluppo, il secondo movimento, Andante, è caratterizzato da quella nobiltà della linea melodica affidata al solista, mentre il terzo movimento è un Rondò, il cui refrain, costituito da un elegante Andante grazioso, si alterna ad episodi di carattere brillante nei quali il solista può fare sfoggio del suo virtuosismo, imperniato su temi di sapore popolare: un primo motivo di danza e un secondo, una sorta di musette con tanto di bordone. La seconda parte della serata sarà interamente dedicata all’esecuzione della VII sinfonia di Ludwig Van Beethoven. La grandiosa visione di Wagner della “Settima” come “apoteosi della danza” serve a introdurre il discorso in un contesto piú specificamente musicale: la “Settima” costituisce un punto di arrivo e di passaggio nello stesso tempo, che dal punto di vista formale e stilistico corona in modo del tutto particolare la conquista beethoveniana del dominio sinfonico. La continua espansione della ricerca sulle possibilità della sinfonia, quale si era concretata nella seconda maniera, approda infatti nella “Settima” a una riduzione dell’ambito formale che in sintesi significa un passaggio di livello nel modo di considerare i rapporti e le funzioni all’interno dell’itinerario formale della grande forma sinfonica. Questo processo risulta evidente sia sul piano del carattere e del divenire dei temi, sia su quello delle loro funzioni nei rapporti di contrasto e di opposizione nello svolgimento dei quattro tempi, sia nella tecnica degli sviluppi e delle elaborazioni, sia, infine, nella ricerca sulle proprietà strutturali dei fondamenti del linguaggio; e questi non sono che alcuni, anche se i principali. Su un piano piú generale tale riduzione, che si arricchisce già dei connotati precipui che porteranno agli esiti massimi delle opere dell’ultimo periodo, condiziona anche l’ulteriore grado di appropriazione del modello della forma-sonata, che qui dà vita ad una concezione formale unica ed assoluta proprio in quanto è il risultato di un processo che, disimpegnatosi via via dalle strette dell’individualismo eroico in lotta, è giunto ad analizzare e ad oggettivare i termini stessi del proprio sviluppo. Nella Settima, dunque, Beethoven realizza un decisivo passo verso un modo nuovo di concepire la musica e, in particolare, la costruzione sinfonica, fondandosi unicamente sul contrasto nel fluire del tempo degli elementi puramente musicali organizzati al loro stadio primario: essenzialmente, come successione e opposizione di ritmi. Il ritmo è il fondamento strutturale che sta alla base della Sinfonia e che, materializzandosi, ne riempie di contenuto formale lo schema astratto che Beethoven derivava dalla tradizione (forma-sonata per i due tempi estremi, rondò e scherzo, rispettivamente, per quegli intermedi); il rilievo assoluto che il ritmo vi assume spiega fra l’altro l’origine della interpretazione di Wagner, la sua immagine poetica e figurativa: che cosa è infatti la danza se non sublimazione del ritmo musicale? Ma piú importante è forse ribadire come in questa Sinfonia sia superato ogni concetto di contrasto tematico (perché non esistono temi come individualità distinte e autosufficienti in lotta fra loro), e perfino sia abbandonata la traccia convenzionale dell’itinerario tonale, anch’essa come travolta nell’incessante divenire ritmico: lo sfruttamento delle possibilità connesse alla articolazione ritmica secondo un principio che si potrebbe definire di « variazione integrale », da una parte, la loro organizzazione in funzioni e relazioni che esse stesse concorrono a creare, dall’altra, questi sono i concetti fondamentali che in-formano la struttura di questa splendida pagina. Chi ama l’arte, ama il rischio e la sfida, rompe gli equilibri e brama tentare l’impossibile, per una causa, per un principio, in difesa della verità, per essere d’esempio alle future generazioni, questo è l’essere “puro folle” di wagneriana memoria, sia di Riccardo Muti che di Giuseppe Gibboni, di chi il proprio Graal, che possediamo tutti nel nostro interno, va a ricercarlo ogni giorno. “L’arte è automodificazione. Noi cambieremo in modo meraviglioso se accetteremo le incertezze del cambiamento e questo condizionerà qualsiasi attività di progettazione. Questo è un valore. L’arte, così concepita, è la forma piena della capacità di mettersi in giuoco, e a rischio” (John Cage).





