De Mita, un convegno con il suo "testamento" - Le Cronache Ultimora
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De Mita, un convegno con il suo “testamento”

De Mita, un convegno  con il suo “testamento”

   Antonio Manzo

 

Ora che si vogliono fare tutti democristiani, anche per solo sfizio nostalgico, un convegno dedicato alla figura di Ciriaco De Mita si terrà domani, lunedì, al complesso monumentale del carcere borbonico di Avellino. L’evento, con il titolo molto evocativo, lo scelse lo stesso Ciriaco De Mita come un testamento che ora viene pubblicato. Il testamento-titolo “Quando morirò continuerò a parlare” lui lo scrisse quando si risvegliava con l’incubo quotidiano di un mondo senza la politica, e poi senza la Democrazia Cristiana, o meglio, senza i democristiani.

Ucronia, non si abbia paura del termine, è più semplice di quanto appare e calza benissimo per l’appuntamento di lunedì ad Avellino. Lo  descrive accuratamente lo scrittore Emmanuel Carrère sul sovversivo genere letterario. E siccome Ciriaco De Mita pensava anche la storia come avrebbe potuto svolgersi – o ucronia – o se le cose fossero andate diversamente. Ecco il racconto secondo il canone dell’ucronia.

Il racconto della vita che fu

Ciriaco De Mita arriva di buon ora nel Transatlantico di Montecitorio. Ed incrocia per i tradizionali passi che non sono perduti un giornalista suo amico da una vita, cronista politco ma ,soprattutto, uno dei “valanzini” come denominavano i sette democristiani che fecero insieme la storia repubblicania con l’ascensore sociale dell’intyelligenza e della fame, scalando le montagne per combattere lo strapotere di Fiorentino Sullo, fare una rivolta generazionale e arrivare e comandare l’Italia. “Nacchettino”, il giornalista è uno dei sette irpini  insieme a Gerardo Bianco, Nicola Mancino, Biagio Agnes, Salverino De Vito, Aristide Savignano Giuseppe Gargani e Ortensio Zecchino, oltre che il mitico cronista “Naccehttino”. Ciriaco De Mita entra alla Camera e intravede Nacchettino. Non solo la gioia di un incontro dopo anni  ma anche l’occasione, per lui rituale ma stavolta affettiva di prendere sottobraccio un giornalista e percorrere discutendo nella storica “vasca” del Transatlantico parlamentare. Perche Ciriaco ama fare così con i cronisti, soprattutto se amici,  mettendo il proprio braccio destro sotto a quello ripiegato dell’altro passeggiatore, formando una sorta di nodo. Ciriaco dice a “Nacchettino” : “Un peccato non avere la certezza di non aver potuto scegliere le nostre ultime parola. Tu le avresti scritte dopo che io le avevo esposte. A questo, basta il caso. Spesso significano niente, le ultime parole. Ma ci si torna sempre con la memoria, e sempre immaginando cosa volessero dire. Però: o si lascia una lettera o si fa testamento un testamento diversamente da quello notarile ed io, caro Nacchettino, ti dico che da quando sono morto continuo a parlare. E domani per me lo faranno anche i miei amici ad Avellino, sì nella nostra città che l’acuto tuo collega e nostro amico Beppe Sangiorgi dopo aver definito Nusco caput mundi spiegò che Napoli era diventata “Avellino marittima” dove eravamo sbarcati noi irpini con la forza delle nostre intelligenze”

Più avanti, verso l’ultimo divano del Transatlantico, c’è appostato Beppe Crescimbeni, il noto notista politico de Il Tempo che osava perfino sfidare a tressette Ciriaco più per malcelato interesse a farlo parlare che per effettiva passione delle carte napoletane.

Ora passeggiano a tre, Ciriaco al centro con sottobracccio  Nacchettino e Crescimbeni, vanno avanti e indietro per il Transatlantico carico di parlamentari  e di problemi, a volte la scelta del ristorante quotidiano. Tutti in quei passi perduti tra vaganti a casaccio, sbuffi di fumo di sigaro toscano, e gente che forse credono che con le parole si guadagneranno il paradiso.  A loro non par vero, ma a Ciriaco sì, incrociare Stefano De Michele sornione, ironico e bravo giornalista de Il Foglio di Giuliano Ferrara al quale piace oziare, avere del tempo da perdere, leggere libri anche se non viaggia, non sa l’inglese, e non ha la patente. Proprio come Ciriaco. Stefano si fida della polizia, dei preti (a volte) e dei vecchi comunisti, dice di lui Giuliano Ferrara.

E’ proprio De Michele, ricorda Ciriaco,  a irrompere nella giungla del Transatlantico quando Nino Andreatta, economista e front man dei demitiani dovette etichettare Rino Formica, ministro socialista, “commercialista di Bari” nella famosa lite delle comari che lacera il pentapartito del tempo. Quando Mastella azzarda che Formica non è altro che “un rozzo provocatore cui andrebbe applicata la briglia della comare, come si faceva nel medioevo”, e registra l’invettiva ironica ma velenosa di Peppino Gargani per il Psi secondo il quale “Craxi è un maramaldo di provincia“ seguito dal raggionamendo demitiano dal capitolo  “Ci sono dei matti a piede libero”.

Stefano De Michele professa a D Mita la sua fede martinazzoliana perché dice che mai, a piazza del Gesù, si era visto un tipo come Mino Martinazzoli. Certo, la chiacchiera sfuggente di Forlani, l’intelligenza ragionante di De Mita, le battutine prelatizie di Andreotti, l’inutile fervore di Fanfani: ma su tutto e su tutti, in questa sera freddissima di fine gennaio del 1994, si posa la polvere del disincanto con la fine della Democrazia Cristiana. De  Michele ricordsa De Mita una frase di Martinazzoli: “Siamo uno strano partito che passa le giornate a contare le tessere e le serate a commentare le encicliche”.

Non era facile, ma un giornalista poteva pure innamorarsi professionalmente di Martinazzoli. Un giornalista dell’Unità, poi, pure politicamente. Nei tempi della sazietà democristiana, Martinazzoli si aggirava per i luoghi di quel potere e indicava l’orizzonte oscuro che intravedeva: “Il dramma è che il partito è uguale dappertutto, e questo partito, in certe aree del paese, risulta agli italiani sempre più insopportabile”.

De Mita, solitario, abbandona il Pd

Ciriaco De Mita fa parlare anche da morto perché menter va via dal Partito Democratico a febbraio 2008 e abbandona la direzione nazionale guidata da Walter Veltroni sulla inutilità del partito insinua il dubbio che la realtà possa di colpo vacillare spalancando abissi per lui angosciosi e non prevedibili, al punto di vista umano prima di tutto. De Mita, solitario, prende il cappotto e se ne va. Incontra il suo amico Follini e gli dice: Marco, tu arrivi e io me ne vado”. Se ne va da solo, restano in sala due suoi presunti amici politici che a lui dovevano l’ascesa politica. Eppure, la politica viene sbarazzata dalla convenienza e  Ciriaco resta solo per andare poi ad aprire la campagna elettorale dell’Udc. Dice sarcastico: “Come si fa a lasciare qualcosa che non c’è?”. Il politico campano racconta le sue perplessità sul percorso del partito di Veltroni anche se ammette di aver subìto il fascino della costruzione di un movimento nuovo.

“Io sono solo un democristiano – ricorda -. Con Casini vogliamo dar vita a un movimento politico di centro che affronti il futuro recuperando le radici dei cattolici popolari. Avrei potuto dire queste cose anni fa, ma ero solo. Ho aspettato perché la politica è dire le cose con gli altri”. Gli altri che avev sceleto per fare il Pd non c’erano più. “Cosa devo dirle? E’ un paradosso, doveroso e impensabile Roba da cattivi e, mi perdoni, da miserabili che sono a riva dek mare aspettando il pescato degli altri e non si muovono ma poi mangiano.