Eboli. Una moschea nella città di Cristo - Le Cronache Attualità
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Eboli. Una moschea nella città di Cristo

Eboli. Una moschea nella città di Cristo

*Questo articolo, il primo di una piccola inchiesta in due puntate sulla penetrazione islamica sul territorio, sarebbe dovuto uscire il Lunedì in albis. La morte del Papa ha fatto, giustamente, cambiare rotta a tutto. Conclusa la fase solenne e proprio in ossequio all’eredità di Francesco che, da autentico gesuita, pure sull’islam non ha usato parole di chiarezza, la questione può essere proposta.

Peppe Rinaldi

Le foto sono state scattate sul finire dello scorso anno. Oggi la situazione pare sia la stessa, salvo accorgimenti e aggiustamenti vari. Tredici bombole di Gpl alla mercé di tutto sotto un palazzo per civili abitazioni, allacci elettrici come nelle bidonville, igiene da sottomondo, ambienti degradati, sangue sulle strade pubbliche a segno di animali macellati poco prima e chissà cos’altro: insomma, la stessa indecenza mai perdonata ad altri, neppure per una planimetria errata di pochi centimetri, nel caso che andiamo a raccontare non sembra faccia scandalo. Stiamo parlando di una delle attività commerciali della frazione già italiana di Eboli, Santa Cecilia, qui ribattezzata «Selestan» per manifeste ragioni, non distante dal carcinoma antropico della vicina Campolongo-Marina di Eboli, entrambi delizia per sindacalisti, padroncini e malfattori d’ogni risma ma croce per il presente e per il futuro di un’intera comunità che, nel volgere di un paio di decenni, vedrà il proprio volto sfigurato, forse per sempre. Non ci sarebbe solo questo, pure altri esercizi gestiti da stranieri di un certo tipo versano in analoghe condizioni. Come mai le autorità non intervengono? Sarebbe da chiedere a loro, aggiungendo pure una domanda su che fine abbiano fatto le segnalazioni di qualche temerario residente angosciato dallo schifo in cui un brano di territorio sta riducendosi. Il condominio che al piano terra ospita l’attività è in palpitazione, la paura che prima o poi accada qualcosa è giustificata, a partire dal gas o dall’elettricità, a nessuno è consentito tenere anche una sola bombola di Gpl in un’attività di qualunque tipo, qui, invece, pare si chiudano sedici occhi. Senza considerare cosa significhi vivere in un contesto dove l’enclave musulmana praticamente domina lo spazio pubblico, non foss’altro per una questione numerica. E i nostri numeri, si sa, sono tremendi: noi compriamo cani e gatti mentre «gli altri» fanno figli, la legge della statistica non mente, siamo un’orchestra permanente del Titanic e si vede da come ci poniamo in rapporto a questi giganteschi problemi, tra chi non vede l’ora di indossare un hijab o un niqab, forse perché li immagina come una cosa esotica, chi inarca il sopracciglio sputando su questo mondo razzista che non capisce la «complessità dei fenomeni», indicati con altezzosità come «ineluttabili», chi straparla di «misericordia». Tutte balle, belle ma pur sempre balle. Quando una comunità islamica si radica inizia subito ad espandersi in progressione quasi geometrica – c’è un punto in cui il tasso di islamizzazione diventa irreversibile, da decenni i demografi lo segnalano vanamente – e le cose si fanno complicate con asimmetrica velocità; basterebbe non solo e non tanto avere un po’ di confidenza con le nozioni di base della storia, quanto guardarsi attorno e osservare: l’Inghilterra è spacciata, la Francia non ne parliamo, la Germania è sull’orlo del collasso, i paesi del Nord Europa sono sotto botta, Svezia e Belgio marciscono; in Italia Torino è quasi andata, un pezzo del Friuli pure, Milano è sfregiata, Brescia è irriconoscibile, a Roma si sono suicidati da tempo con la moschea più grande d’Europa, Napoli pure è inondata ma regge ancora un po’ perché un minimo fermento vitale sembra ancora attivo, anche se non durerà a lungo. I centri delle città europee, invasi da kebabberie e friggitorie e negozi halal, si restringono fortificandosi con palazzoni vetrosi e costosi, piste ciclabili, divieti di fumo e caccia nevrotica a mille «fobie» inventate, quartieri e rioni sono vicini agli scenari urbani di Malmoe, Molenbek, Amburgo, Brighton, Marsiglia, con chiese e sinagoghe incendiate, commissariati di polizia assediati, donne sepolte nei sottoscala, raid contro gli ebrei per le strade, ma si preferisce non guardare, costa troppa fatica, l’autocensura diventa la regola. La «delinquenza» potrebbe essere perfino un problema minore rispetto a quel che si sta imbandendo per il futuro. Ad Eboli, dove si intravvedono i primi embrioni di cellule autonome di stranieri anche nei luoghi di spaccio cittadino, oltre a nascenti formazioni di «maranza» di cui presto ci si accorgerà, sarà la stessa cosa nel tempo di una/due generazioni, il processo è già avviato da tempo. Tornando a questa attività commerciale, per noi utile paradigma, va detto che la situazione, ove confermata nei termini delle foto, costringe almeno a domande semplici: cosa aspettano l’amministrazione comunale – il cui baricentro è proprio a S. Cecilia – o le forze dell’ordine (non c’era una stazione dei carabinieri nell’area?) o qualunque altro organo ispettivo a mandare un controllo? Se ci sono state già denunce e segnalazioni – e ci sono state – che fine hanno fatto? Che si fa, per non discriminare si discrimina? Cattive notizie Questa non è neppure l’unica cattiva notizia. Nei pressi di questo condominio, infatti, sorgerà una moschea, tutti lo sanno ma nessun lo dice. La comunità islamica ha pagato 400mila euro – e l’occhiuta Guardia di Finanza o qualcuno dei Servizi di certo avranno monitorato ogni centesimo del flusso finanziario relazionando poi ai nuclei di Prefettura e Dda – per l’acquisto di una struttura vicina all’asilo che faceva gola anche ad un imprenditore del posto, ma la liquidità in mezzaluna ha prevalso offrendo circa 50mila euro in più al venditore, il quale, giustamente, vende a chi paga di più e meglio. I maomettani che hanno guidato l’operazione, in massima parte marocchini, giurano che lì non nascerà una moschea ma un “Centro culturale islamico” dove si riuniranno i fedeli per “coltivare la propria cultura”. Sorvolando per ora sulla «taqqiya», antica tecnica della dissimulazione appresa in tenera età dai musulmani, andrebbe ricordato che in quelle società non esiste separazione tra la religione e tutto il resto, quindi «coltivare la propria cultura» non può che significare Corano, sharia, hadith, fatwe e predicazioni ambigue, come in tutti i posti del mondo, anche in contesti apparentemente moderni. Il «centro» si presenta però come un sacrosanto luogo di aggregazione per genti allogene, la qual cosa, in astratto, non è un problema, ci mancherebbe: il punto è che tutto dipende da che tipo di comunità si materializza e che tipo di cultura venga coltivata, a parole è tutto nobile e bello ma ci sono culture e culture e non tutte sono tra loro compatibili. Secondo tentativo Anni fa già ci provarono a fare la stessa operazione, era il tempo del sindaco Cariello, il quale, astutamente, mandò i promotori a comprare il pepe, nel senso che replicò loro che in quel posto non si poteva fare, suggerendo altre soluzioni che fecero solo perdere tempo. E fu un bene. L’amministrazione attuale, domani chissà ma oggi intruppata nel movimentismo impomatato dei 5S e nell’adolescenzialismo da fuori-corso à la Schlein, quindi in culture politiche, chiamiamole così, che incarnano il massimo della desiderabilità per ogni musulmano (basti, da ultimo, vedere gli indecenti cortei dell’ex 25 aprile) avrebbe invece dato garanzie per il futuro, almeno stando a quanto raccontano fonti interne al gruppo. Andate avanti – si sarebbero grosso modo sentiti incoraggiare -, fate le cose in regola e lì ci farete ciò che volete, anche una moschea. Ora, non sappiamo quanto sia fondata questa indiscrezione, però appare verosimile, si tratta ora di capire che tipo di garanzie un ente locale possa offrire: certo, «pensarla in un certo modo» è decisivo perché ne discende ogni scelta politica e amministrativa, si riverbera negli atti, nelle delibere, nei contratti, nei programmi e così via. Il grado di «pericolosità» amministrativa, valutazione rimessa alla libera interpretazione di ciascuno, è quindi offerto dagli stessi attori della cosa pubblica anche – si direbbe soprattutto – sotto il profilo della identità consegnata alla storia: e sin qui, nei momenti cruciali, l’attuale classe dirigente ha già ribadito una scelta di campo e una precisa appartenenza attraverso l’adozione di un atto pubblico solenne sulla guerra in MO (una delibera consiliare da notificare, nientedimeno, anche all’Onu) sgangherato e infamante, accanto all’esposizione sulle mura municipali di due striscioni altrettanto classificabili. Il primo recita un classico “Verità per Giulio Regeni” – e vabbè – , il secondo, un ridondante “Cessate il fuoco” riferito al conflitto in Israele, qui ampiamente trattato mesi fa, esibizione malconcia di un abito mentale dove conati rosso-bruni riemergono come per ipnosi sotto le mentite spoglie di una immensa tragedia ribaltata senza sosta, nutrita da ignoranza crassa della realtà. C’è relazione tra questo mondo e una certa tolleranza istituzionale che produce risultati, urbani e meno urbani, come quelli raccontati dalle foto? Sembrerebbe di sì. (1_continua)