Il teatro alla Scala di Milano è esploso al bis del concerto per LXXX della Resistenza, quando è stato elevato il canto Bella Ciao, di cui è stata vietata in tante città, incluso la nostra Salerno di ascendenza, a questo punto devo dire “sinistroide”. Corteo con banda partecipato e diviso che, di questi tempi, non ha assolutamente da essere
Olga Chieffi
Sobrio dal latino sòbrius da so ed ebrius, o dal greco Sophron sano di mente, questo è il termine che gira dalla dichiarazione del lutto nazionale da parte del governo che occupa il Parlamento italiano. Il governo ha intimato per questo 25 aprile, allungando i giorni di lutto a cinque, festeggiamenti “sobri” per l’ottantennale della Liberazione d’Italia, una festa che è seconda solo al due giugno, la Festa della Repubblica. Le manifestazioni del 25 aprile sono state storicamente da sempre, momenti di riflessione, oltre che di celebrazione della liberazione dell’Italia dal nazifascismo, che hanno avuto, di anno in anno, un tono di festa solenne e compassata in ricordo di quanti hanno perso la loro vita per la democrazia. C’è stata sempre la musica ad accompagnare i passi delle tante persone scese in strada, ma è stato un canto di liberazione, mai un festeggiamento sfrenato, quest’anno velatamente e oscuramente intimidito da un editto del Governo, in occasione della dipartita di Papa Francesco. Alla Scala di Milano, dove si è celebrato il 25 aprile con un bel concerto con in programma i grandi cori verdiani da I lombardi, Nabucco, Macbeth, il Rossini de’ La Gazza Ladra e del Guglielmo Tell, musica che ha risvegliato le coscienze dei popoli nel Risorgimento, il direttore Bruno Nicoli ha scelto, quale bis di elevare il canto Bella Ciao, facendo esplodere il teatro. Era quello pur il podio di Arturo Toscanini che l’11 maggio del 1946 diresse lo storico concerto di riapertura della Scala, il concerto della Liberazione, dopo che la sera del 14 maggio 1931 al teatro comunale di Bologna nella serata in memoria di Giuseppe Martucci, nonostante le pressioni ricevute rifiutò di eseguire Giovinezza e la Marcia Reale in onore di Leandro Arpinati, ducetto locale, grande amico di Mussolini e di vari altri gerarchi tra cui Costanzo Ciano e per questo venne violentemente aggredito. Sobrietà, quindi, per Francesco, colui il quale ha vissuto quel 24 marzo 1976 in Argentina quando i militari presero il potere e inaugurarono sette anni di terrore, dramma dei “desaparecidos”. A Buenos Aires il gesuita Jorge Mario Bergoglio mise in salvo tutti i ricercati che potè. Quel prete, che ha vissuto anche la grande protesta che si concentrò in Plaza de Mayo, e in tutte le principali città del Paese e del mondo, del cosiddetto cacerolazo, è divenuto Papa Francesco. Quest’uomo vicino alla gente, che ha scelto il nome di Francesco, il poverello d’Assisi, Francesco il giullare di Dio, per dirla con Roberto Rossellini, elogio di una santità tutt’altro che ieratica, ma basata sulla follia, di chi si comporta come un bambino, come un elemento della natura, finendo per scandalizzare i portatori della morale comune, avrebbe mai potuto accettare questa oscura intimazione di “sobrietà”, in una festa che celebra chi si è sacrificato per la Libertà di tutti? C’è chi ha inteso profittare di questo editto riducendo quasi del tutto le celebrazioni. Qui a Salerno è da qualche tempo, oramai, che il protocollo intima alla banda di non eseguire il canto principe della giornata della Resistenza “Bella Ciao”, un bando che proviene da un’amministrazione di sinistra, a questo punto ci vien da dire “sinistroide”. Si esegue Il Canto degli Italiani di Novaro e Mameli, La leggenda del Piave del nostro E.A.Mario, ma questi sono titoli che precedono ampiamente la Seconda guerra Mondiale. Il direttore del Corpo bandistico “Lorenzo Rinaldi” di Giffoni Valle Piana, diretta da Francesco Guida, nel suo ormai abituale servizio, ha realizzato un semplice repertorio marciabile, con titoli quali Omaggio Floreale, Capricciosa, Primi passi, Ariete, nella promenade tra i tre punti di omaggio ai caduti, piazza XXIV Maggio, il monumento ai Caduti del mare e dinanzi al Palazzo della Provincia, dove insistono le lapidi delle medaglie d’Oro partigiane. I canti della Resistenza sono altri: Ardere! Attraverso valli e monti, Boves, Brigata Partigiana, un repertorio in cui non disdegnerei di inserire le marce dell’esercito americano, che portano grandi firme, come quella di John Philip Sousa, o quelle dei contingenti scozzesi sacrificatisi in quel di Pontecagnano. E’ stato importante il corteo salernitano, scioccamente diviso: tutti insieme, unitari, si sarebbe dovuto giungere sotto Palazzo Sant’Agostino, poi, Anpi e i vari cartelli di gruppi studenteschi in Piazza 25 aprile riunirsi a sottolineare gli innumerevoli temi dove protagonista è la Resistenza e con essa la Libertà, dal Lavoro, agli immigrati. Un momento quale è questo che stiamo vivendo ha come non mai bisogno di unità. Mi sovvengono le immagini del film “Il sole sorge ancora”, girato tra la fine del 1945 e l’inizio del 1946, con l’Italia appena uscita dalla barbarie della guerra e dell’occupazione nazi-fascista. Aldo Vergano firmò un’opera che cercò di mescolare la lettura intellettuale della Storia a una naturale propensione popolare, ed è interessante vedere come le esigenze colte e quelle strettamente quotidiane riuscirono a fondersi, trovando una vivifica forza nella retorica pura del racconto di un popolo oppresso, che dovè trovare la forza per convincersi di esserlo, prima ancora che per agire ricorrendo alle armi, e Resistere. A sorprendere è la capacità di Vergano di unire a un registro impressionista, e quindi prossimo al neonato Neorealismo, una spiccata sensibilità epica, in cui sono le masse popolari a essere il primo e principale personaggio in scena. Si prenda come esempio supremo la splendida sequenza che vede il parroco del paese, da sempre operaista, andare alla fucilazione (e qui il parallelismo con il capolavoro Roma città aperta, viene naturale): incamminandosi verso il martirio Carlo Lizzani – è lui a interpretare il prete – pronunciale litanie, e il popolo, inquadrato in un serrato campo controcampo in una prospettiva evidentemente sovietica ed espressionista, risponde Ora Pro nobis, in un’incalzante dialettica che non ha nulla del clericalismo, ma già spinge verso la ribellione, la battaglia, la lotta. Lizzani, come Alfonso Gatto, Gillo Pontecorvo, anche lui fucilato nella sequenza citata, De Santis, Aristarco, il critico teatrale Ruggero Jacobbi, parteciparono al film che assume, dunque le forme di un racconto-memoriale collettivo, resoconto necessario di una lotta partigiana i cui angoli vennero già smussati sin dal dopoguerra. Qui a Salerno durante la proiezione, mi raccontava mio padre, forse al cinema Augusteo, in una sala fumosa e affollata, fu la platea a rispondere unita anch’ essa, in una sola voce. Il sole sorgerà ancora.





