Olga Chieffi “
Per comporre musiche sacre ispirate alla sofferenza ed alla morte (siano mottetti penitenziali o responsi della Settimana Santa o passioni o improperia o qualsivoglia altro suggetto similare), doverebbe star avvertito il compositore di non fare solo musica buia e arrabbiata in falsa larghezza, forzando la penna oltr’il naturale, perché per i sentimenti di dolore o di preghiera penitente o di pianto le opportune armonie et i sani contrapunti non dovrebbon perdere mai la luce, la vaghezza e l’affectione (come dev’essere per i divoti che anche ne’ patimenti giamai scordano la speranza) avendo cura particularissima degli accidenti e delle pause (che della musica sono il colore e ’l respiro): doverebbe insomma la composizione riescir naturale e profonda”. Con queste parole il fiorentino Giovanni Francesco Beccatelli, teorico, maestro di cappella e organista nella cattedrale di Prato, illustrava la sua concezione di musica per le “tenebre”. Questo pomeriggio, invece, sarà il dipartimento di Canto e teatro musicale guidato da Irma Irene Tortora e Carlo Costa ad organizzare il preludio scenico e musicale agli eventi della Settimana Santa, al periodo della passione di Cristo con l’esecuzione dello “Stabat Mater” di Giovanni Battista Pergolesi, nella ormai abituale cornice di Sant’Anna in San Lorenzo che ospita il concerto in forma scenica da tre anni, alle ore 19,15. L’opera, per due voci femminili, soprano, contralto, archi e basso continuo, è stata affidata ad un vero e proprio coro e a diverse soliste, le quali si alterneranno nei vari numeri, sostenute dal pianista e maestro concertatore Carmine Rosolia, unitamente al percussionista Simone Parisi, con la voce narrante di Irma Irene Tortora, per la regia di Carlo Costa. A Sant’Anna in San Lorenzo si ascenderà in corteo, che muoverà da Piazza Alfano I, ai piedi dello scalone del Duomo, alle ore 17,30, ritmato dal suono del tamburo a morte, Il suo suono ritmico per scandire il passo e il tempo fermo che tornerà a scorrere solo con lo scioglimento delle campane della Resurrezione. Lo Stabat Mater viene da sempre considerato, il testamento spirituale di Pergolesi. Completato, secondo una tradizione, della quale non è possibile appurare l’attendibilità, il giorno stesso della morte, lo Stabat Mater è comunque una delle ultime opere, se non l’ultima, di Giovanni Battista Pergolesi che, quasi presago del triste fine che lo attendeva, cercò di portare a termine questo lavoro prima che la morte lo cogliesse alla giovane età di 26 anni. Per Pergolesi, infatti, portare a compimento questo lavoro era quasi un obbligo morale, in quanto il compositore aveva già ricevuto la somma di dieci ducati, come compenso per la composizione dell’opera, da parte del committente, l’Arciconfraternita dei Cavalieri della Vergine de’ dolori della Confraternita di San Luigi al Palazzo, che aveva deciso di sostituire il vecchio Stabat Mater di Alessandro Scarlatti. Eseguito ininterrottamente per circa vent’anni nelle chiesa napoletana di San Luigi di Palazzo, sede della confraternita, lo Stabat scarlattiano, al quale questa composizione si richiama per la scelta dell’organico vocale, piuttosto insolito, in quanto costituito da un soprano e da un contralto al posto del classico quartetto, era, infatti, ormai venuto a noia ai confratelli che avevano affidato a Pergolesi appunto la composizione di un nuovo Stabat. Le condizioni di salute del compositore non erano, tuttavia, delle migliori, in quanto la tubercolosi che lo avrebbe portato alla morte, aveva già minato in modo irreparabile il suo debolissimo fisico. Ciò nonostante Pergolesi, forse alla ricerca di un’atmosfera più salubre e di maggiore tranquillità per ultimare il lavoro, si trasferì da Napoli a Pozzuoli, dove nel convento dei Cappuccini fu ospitato e accudito negli ultimi giorni della sua vita. Qui terminò la composizione dello Stabat, che lo assorbì totalmente nonostante le condizioni di salute peggiorassero di giorno in giorno. Pergolesi, infatti, con straordinaria professionalità, si dedicò alla composizione dell’opera dall’alba alla sera, con la sola interruzione del pranzo indebolendo ancor di più la sua salute malferma. Nell’autografo della partitura, conservato presso la biblioteca del Monastero di Montecassino, è possibile rilevare una certa fretta di concludere da parte di Pergolesi che si dimenticò di stendere alcune parti delle viole e nell’ultima pagina scrisse Finis Laus Deo. In questa opera emerge la bellezza pura, malinconica ma non drammatica, che risplende in tutta la sequenza, quasi come se Pergolesi vi si fosse rispecchiato ed avesse ritrovato gli accenti più veri del suo dolore in quel canto, sincero e profondamente sentito. È una musica non pretenziosa, si direbbe umile, dove sono eliminati ogni sorta di virtuosismo esteriore fine a sé stesso ed ogni sorta di artificio superfluo e ridondante. A distanza di quasi tre secoli dalla composizione, le innovazioni trovano una unitaria compostezza in questa pagina di Pergolesi: ciò avviene da un punto di vista stilistico grazie all’approdo ad una prospettiva più squisitamente sentimentale, la celebrata Teoria degli affetti, incentrata sul pathos del testo sacro e, da un punto di vista tecnico-compositivo, grazie all’alleggerimento degli austeri toni presenti nella versione scarlattiana. Tutto questo non implica un completo abbandono delle forme tipiche della tradizione sacra – presente per esempio nei richiami arcaicizzanti di alcuni passaggi del “Fac, ut ardeat cor meum” – ma esse si compendiano in un perfetto bilanciamento con i drammatici trilli del “Cujus animam gementem” o nell’interpretazione dei toni dell’anima con il “Fac me vere tecum flere”. Tutto sorregge il canto ed è funzionale al risplendere delle due voci femminili, e già dall’introduzione si delinea un clima commovente e malinconico, la musica prende vita forma e ha il compito di far percepire la terra, il terreno, come un principio di assorbimento e, insieme di nascita: abbassando, si seppellisce e si semina, e, nel medesimo tempo, si dà la morte per poi ridare nuova luce, nuova vita.





