di Aldo Primicerio
“Prima che sia troppo tardi” non è il solito (presunto) “luogo comune”. E’ invece il titolo di uno studio di Astra Ricerche per INC Non Profit Lab. Riassume le risposte di un campione di 1000 italiani e di una selezione di organismi non profit, impegnati sul tema della violenza di genere, che si è voluto mettere al centro della nostra attenzione per quest’intera settimana. Il “luogo comune”, dunque. Come spesso accade, è invece il celebre aforisma “Non è vero che abbiamo poco tempo. La verità è che ne sprechiamo molto”. E’ l’essenza del De Brevitate Vitae, un monumento della letteratura di uno dei più grandi del passato, Lucio Anneo Seneca, filosofo, drammaturgo e politico romano, vissuto due millenni fa, nel 65 dC.
E poi la retorica. Dilaga quando c’è da scrivere o parlare su alcune sfide epocali del pianeta. Pandemie, clima, effetto serra, e violenza di genere appunto. Bisogna fare presto a parlare innanzitutto con bambini e ragazzi. Certo. Perché dallo studio di Astra affiora un’urgenza che abbiamo sempre sottovalutato, quella di educare i giovani all’affettività per contrastare la violenza sulle donne. Lo studio è partito dal quesito se avremmo solo contribuito ad aggiungere sdegno allo sdegno, come fa da anni ogni campagna che si occupa di questo argomento.
Ma solo con lo sdegno – comunque necessario – non si fanno grandi passi avanti. Ci vuole qualcosa di più radicale, un cambiamento culturale. Perché molte verità sono sottovalutate
Le campagne di sensibilizzazione sono utili ma il problema è a chi indirizzarle. Agli adulti? Nella speranza che qualcuno cambi il proprio modo di essere, già formato e consolidato? O piuttosto ai bambini e ragazzi, pronti a imprimere sulle loro anime in fieri messaggi che diventino antidoti al veleno della sopraffazione di alcuni uomini su alcune donne. E sì. Perché sono solo alcuni i fragili, i depravati e perversi. Gli uomini veri sono altra cosa. Ed il fenomeno non va enfatizzato e generalizzato come fanno alcuni media. Dallo studio Astra emergono molte verità sottovalutate e trascurate. Partendo dalla percezione. La violenza di genere contro le donne in Italia è percepita come molto o abbastanza diffusa dall’80,8% degli italiani. Ma c’è anche un 38,6% di persone che vedono molto o abbastanza diffusa anche la violenza di genere contro gli uomini. Da alcuni dati la gravità del fenomeno. Il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni (1 su 3) nel corso della propria vita hanno subito una qualche forma di violenza fisica o sessuale, da partner, ex partner, amici o parenti. Quasi 15 mila donne in un anno entrano nei pronto soccorso degli ospedali con diagnosi di violenza. E più di 100 vengono uccise ogni anno (106 nel 2023, 82 nei primi nove mesi del 2024), gran parte (87 nel 2023) in ambito familiare/affettivo. Poi le campagne di sensibilizzazione. Sono molto viste, ma non sempre giudicate efficaci. Se ne parla? Dallo studio emerge di sì, in famiglia: con il proprio partner (67%) ma
anche con i figli, già da quando sono molto piccoli. Gli italiani sono dunque d’accordo a non nascondere questa dura realtà agli occhi dei figli.
E qui l’urgenza di parlarne anche a scuola, partendo dai bambini. Ma perché l’affettività contro la violenza di genere?
Il 79,7% degli italiani (che sale all’86% per le donne e all’83% per le
ONP) ritiene che sarebbe opportuno e necessario inserire l’educazione all’affettività come materia di studio nelle scuole. Quale legame esiste tra le due cose? Il presupposto è che è possibile insegnare al bambino come affrontare costruttivamente le difficoltà che può incontrare ogni giorno a causa di emozioni o sentimenti negativi. Oggi l’educazione emozionale dei nostri figli è lasciata al
caso, con risultati sempre più disastrosi. I bambini incapaci di relazionarsi a scuola con i propri compagni diventano adolescenti che risolvono con la rabbia le liti e ogni altro confronto, trasformato in conflitto. Dal primo giorno di vita si vede, si osserva, si comprende e si cresce, non solo di cibo e parole, ma anche di emozioni condivise e sentimenti. Oggi ci preoccupiamo tanto di educare la mente e l’intelligenza dei giovani, di curare il loro corpo, ma chi si preoccupa che anche la loro anima cresca nella direzione giusta? E qui, l’ho sempre pensato nel corso della mia vita, affiora l’importanza dello studio della filosofia, una materia che svolge il ruolo di educazione preventiva dell’anima. Lo scrive a chiare lettere il dossier di Astra Ricerche per Inc Lab, da cui noi abbiamo mutuato molti concetti e, perché no, molte parole per il nostro intervento di questa domenica su Cronache.
Parità di genere e femminicidio, due improprietà lessicali abusate dai media e da tutti noi
Non condividiamo invece, sempre nel Rapporto Astra per Inc Lab, le posizioni lessicali e glottologiche della Rai che, nell’impegno contro la violenza di genere, invoca la “parità di genere”. Che è una dizione impropria. Innanzitutto per una interpretazione errata della Costituzione. Dove, all’art. 3, non parla di parità di genere, ma di pari dignità senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione. E poi per un uso sbagliato che se ne fa sui media. Al di là delle sottigliezze di oggi, i generi sono e restano due, maschile e femminile, e quindi non possono essere pari, né è ammissibile la locuzione parità di genere, ma – se ci si vuole esprimere in una italiano corretto – tra uomo e donna esiste piuttosto l’equità di genere. L’altro errore che, secondo la nostra modesta opinione, si fa oggi è quello dell’uso del termine femminicidio. Una parola non solo orribile a scriversi e pronunciarsi, ma anche lessicalmente errata nella lingua italiana. L’ho scritto anche altre volte. Qualcuno si è alzato una mattina ed ha deciso di inventarsi un neologismo non solo cacofonico ma anche inutile per distinguere l’assassinio di un uomo (omicidio) da quello di una donna (femminicidio). Innanzitutto perché la parola femmina non equivale lessicalmente alla donna umana ma può esserlo anche per quella di gatto, di gallina, di labrador e così via. Ma anche perché l’etimo giusto di omicidio non è il latino homo, ma il greco ὅμοιος cioè simile, e quindi omicidio è l’uccisione di un proprio simile, uomo o donna, senza distinzioni. E’ lo stesso etimo che vale per omofobia od omofilia – sempre da ὅμοιος – che significano disprezzo o attrazione non verso l’uomo, ma verso un proprio simile. Ed allora perché non possiamo farlo anche per omicidio? E ci chiediamo anche cosa diavolo significhi femminicidio. Perché non chiamarlo più correttamente ginocidio (da γυνή = donna)? Insomma per noi femminicidio è solo una parolaccia, un obbrobrio cacofonico, spregevole anche a pronunciarsi. Da come si regolano la Rai e gli altri grandi media, i film o i serial per la tv danno l’impressione di generalizzare la violenza di genere. Che non è un fatto biologico ma culturale, e che, in mano a chi non lo sa gestire,
diventa uno stereotipo patriarcale da superare. Insomma, la nostra lingua va ripensata e rispettata se vogliamo rifondare l’umanità perduta.