Alberto Cuomo
Siamo soliti ritenere Ulisse un eroe positivo e, del resto, nella nostra cultura cattolica, Paride, il troiano rapitore di Elena, sottratta allo sposo Menelao ed alla piccola figlia, viene letto come immorale, disonesto, che, in colpa del proprio gesto, provoca la rovina della sua città e della sua famiglia per mano dei greci offesi e grazie allo stratagemma del Cavallo escogitato dall’acheo re di Itaca. Parteggiamo poi per Ulisse narrato nell’Odissea, il quale si oppone agli dei al fine di tornare nella sua isola e dalla sua sposa Penelope che, malgrado insidiata dai proci, gli resta fedele. Un Ulisse interpretato nel cinema da attori affascinanti, da Kirk Douglas nel primo film del 1954 di Mario Camerini, a Bekim Fehmiu, nella riduzione televisiva dell’Odissea del 1968 per la regia di Franco Rossi, ed ora Ralph Fiennes, in “Il ritorno” presentato alla recente Festa del Cinema di Roma, per la regia di Uberto Pasolini. E come non ricordare poi le tante opere cinematografiche ispirate al personaggio di Ulisse inteso quale esempio della curiosità umana, del misurarsi dell’uomo con l’ignoto, “di fronte ai divini” direbbe Heidegger, come è nel film di Stanley Kubrick “2001 odissea nello spazio” con l’enigmatico Keir Dullea, o in “Fratello dove sei” di Joel ed Ethan Coen in cui Ulisse è interpretato da George Clooney. E pure, secondo il mito, sebbene l’Italia del sud sia greca, noi italiani, discendenti dei latini, apparteniamo alla genia troiana proveniente da Enea, sbarcato dopo le peregrinazioni in mare, fuggito da Troia, sulle coste del Lazio, dove, dopo diverse generazioni, nascerà, per alcuni data persino come sua figlia, Rea Silvia dalla quale verranno alla luce Romolo e Remo. E oltretutto tutta la mitologia riguardante Enea, cantata da Virgilio, serve a Roma per vantare discendenze nobili ma non greche, essendo la costa fenicia, dove ha sede Troia, terra di una civiltà finanche più grande di quella greca, patria del primo alfabeto da cui deriveranno quello greco e latino. In questo senso sarebbe logico si parteggiasse per i troiani invece che per il greco Ulisse, tanto più che il suo stratagemma per invadere Troia è frutto di una furberia e non di intelligenza o eroismo. A Ulisse infatti è propria la metis, l’astuzia, la perfidia, il raggiungimento di uno scopo usando l’inganno, non il noùs che è l’intelligenza del pensiero, della riflessione. Una astuzia che si serve del logos per sostenere cose false come vere essendo il verbo legein connesso anche a pseudea. E chi sa argomentare dalle nostre parti dicendo anche cose inverosimili con sicumera onde essere creduto? Ma lui! Sempre lui, il nostro Ulisse-De Luca, secondo cui dovremmo ringraziare la sua gestione della Regione per avere risolto la questione dei rifiuti in Campania compresi quelli tunisini, in realtà finiti bruciati dolosamente pochi giorni prima della chiusura delle indagini della procura di Potenza, con un notevole inquinamento della zona intorno Persano dove erano stati accatastati. E l’astuzia di Ulisse si manifesta proprio nelle parole come è evidente nell’incontro con Polifemo. Ulisse, il cui nome greco è Odisseo, dice al Ciclope di chiamarsi Outis, da “ou” non e “tis” uno, non-uno quindi nessuno, e riesce in questo biascicando il suo nome “Odysseus outis”. In relazione a tale disposizione all’ingannevole, se Ulisse ha la fortuna di essere ammirato nelle fiction, non viene invece apprezzato nella scrittura. Adorno e Horkheimer, in “Dialettica dell’Illuminismo”, leggono in Ulisse, riportando l’episodio del canto delle Sirene, il simbolo dell’uomo occidentale maturo che, pur conoscendo il valore della natura, vuole dominarla e sottoporre ogni cosa al suo potere, ai suoi scopi, rimanendo in realtà vincolato e dominato dai suoi stessi ordini. Ulisse vuole ascoltare la melodia delle sirene ma vuole superarla e, pertanto, si fa legare all’albero della nave onde non lanciarsi in acqua e, tappate con la cera le orecchie dei suoi marinai, ordina loro di remare sino a sorpassare la costa là dove il canto non può sedurli. Per James Joyce Ulisse è un povero cristo, Leopold Bloom, che compie la propria odissea in un solo giorno. A mostrare la banalità dell’uomo lo scrittore non fa entrare in scena il suo eroe all’inizio, ma dopo ben tre episodi riguardanti il figlio e altri personaggi, per concludere il racconto (si fa per dire) con la figura della moglie Molly, cui Bloom ritorna come ad un’Itaca, ancora sognante per l’orgasmo cui l’ha condotta il suo amante quel giorno tanto da farle fantasticare su quelli che potrebbe avere con altri, povero Leopold e poveri lettori persi in un mare di parole ricche di echi tanto da esserne frastornati. Ma il più severo con Ulisse è Dante il quale, ritenendo l’inganno verbale una vera e propria truffa, pone il greco nell’ottavo girone dell’Inferno, tra i truffatori immersi in fiamme, ovvero tra i consiglieri fraudolenti, avendo convinto i suoi vecchi amici, solo con il potere della parola, ad affrontare il mare oltre le colonne d’Ercole, dove troveranno tutti la morte nell’inabissamento della nave a causa di un turbine mosso dalla grande montagna avvistata: “Tre volte il fé girar con tutte l’acque / a la quarta levar la poppa in suso / e la prora ire in giù, com’altrui piacque / infin che ’l mar fu sovra noi richiuso”. Una lezione che non vale solo per De Luca quanto anche per i suoi sodali nel rischio di trovare il naufragio e la morte politica, qualora convinti dalle sue parole a tentare di navigare oltre le colonne d’Ercole abbandonando il partito, Itaca.