Di Olga Chieffi
A distanza di decenni tutto ciò che riguarda i Ballets Russes e il suo fondatore Sergej Pavlovič Djagilev sono costantemente motivo di interesse, di scoperta, di studio, di ricerca, e di fascino inalterato nel tempo. Lo ha dimostrato la Cornelia Dance Company, nuovamente ospite della rassegna Incontri firmata da Antonella Iannone, con Hybridus, un intenso trittico ideato da Maša Kolar, Nyko Piscopo e Nicolas Grimaldi Capitello, si è presentata al Teatro Pasolini, con Hybridus, un trittico ispirato a quella rivoluzione che furono i Balletes Russes, Un’impresa che ancora oggi appare straordinaria, resa possibile dall’impresario teatrale russo nonché organizzatore e direttore artistico di spettacoli di danza, ma anche di altre figure di spicco che hanno inciso il loro talento nella storia come Anna Pavlova, Coco Chanel, Ida Rubinštejn, Vaclav Fomič Nižinskij, Pablo Picasso, Tamara Karsavina, Nikolaj Rimskij-Korsakov e Igor’ Stravinskij, passando da luoghi iconici quali Montecarlo, sede di residenza della Compagnia dal 1911, San Pietroburgo, Parigi, Londra, Berlino, Bruxelles, New York e ai teatri più prestigiosi che il balletto ci ha potuto offrire, compreso il Teatro dell’Opera di Roma, a più riprese presso il Teatro alla Scala e il glorioso Teatro Lirico di Milano. Numerosi i nomi che hanno composto i Ballets Russes, alcuni pochi noti al grande pubblico, ma ognuno in piccola o grande misura ha contribuito a dare lustro alla compagnia e al mito. Nessuno come Djagilev è stato in grado di portare una ventata d’aria fresca in un momento in cui l’arte coreutica annaspava, ponendo sul gradino più alto la danza nella cultura e nella società, evidenziando altresì quel concetto di “teatro totale” dove la collaborazione tra le arti è apparsa raffinata nella sua arditezza e senza dubbio rivoluzionaria. L’introduzione ha salutato frammenti di diversi balletti, quali Shéhérazade, il Cigno dal Carnaval des animaux di Saint-Saens, le Danze polovesiane del principe Igor, evocazioni del Bolero, in cui le Beasts apparse fanno riferimento ai sentimenti elementari, al rituale pagano, ai confini dell’irrazionale. Poi, in scena è comparsa Petruska, protagonista di un balletto di Igor Stravinskij e Fokine, che offre un’analisi psicologica profonda e toccante di un personaggio che, pur essendo una marionetta, incarna l’anelito umano all’amore e alla libertà. L’impossibilità dell’amore è Petruška, e la sua condizione di marionetta, che significa essere prigioniero del proprio ruolo e delle volontà altrui. Petruška non ha controllo sulla propria vita e sui propri sentimenti, il che la rende una figura, tragicamente impotente, ma che ha la consapevolezza della propria condizione, che lo porta a soffrire ancora di più, rendendo la sua tragedia ancora più profonda. Una coreografia quella di Nicolas Capitello pensata per Eleonora Greco, che indossa esclusivamente le imbottiture deformi e deformanti della bambola, disegnate da Tiziana Barbaranelli per la scenografia Cosimo De Luca, che si svolge su un tappeto esagonale rosso porpora dagli echi chiaramente picassiani, che fa pensare ai suoi celebri arlecchini rende visibile l’anima tormentata di Petruška, attraverso movimenti espressivi e pieni di pathos. Una coreografia, questa che si divide tra comicità e tragedia che va oltre la semplice storia di una marionetta: un’opera che parla dell’animo umano, delle sue fragilità e delle sue aspirazioni, simbolo universale della sofferenza e dell’incapacità di controllare il proprio destino. Non c’è nulla di più ibrido del Bolero di Maurice Ravel che “tutti fischiettano e fischiettano male” (M. Ravel) e che ha un segreto che consiste in un tentativo continuamente ripetuto di far combaciare la melodia con la regolare scansione del tempo, che porta con sé degli elementi che contrastano con l’idea canonica di regolarità, componenti di quell’ibrido che ossessivamente affascina e che deve essere “eseguito con un unico tempo dall’inizio alla fine, nello stile lamentoso e monotono delle melodie arabo–spagnole”, scrive lo stesso Ravel il quale redarguì Mengelberg, che accelerava e rallentava in modo eccessivo e Arturo Toscanini, che lo dirigeva due volte più veloce del dovuto, è stato uno dei pezzi più martoriati e stravolto. Le beasts fatte danzare da Masa Kolar su di una rielaborazione elettroacustica di Viseslav Labos sono state Manuela Facelgi, Nicolas Grimaldi Capitello, Leopoldo Guadagno e Francesco Russo, e ci hanno fatto pensare anche al Sacre, balletto profetico nato un anno prima che rinascessero le violenze dell’uomo nella più sanguinosa guerra moderna, proprio attraverso quei disturbi radio che facevano da sottofondo al capolavoro raveliano, quasi un preludio al 150 anniversario che avverrà il prossimo anno, alla ricerca di connessioni con altre terre, per costruire la pace. Finale affidato a due danzatori giovanissimi Marta Ledeman e Antonio Tello, le musiche quelle celeberrime di Carl Maria von Weber Aufforderung zum Tanz op.65 Rondò brillante in re bemolle maggiore per pianoforte, in cui ci è sembrato di riconoscere il tocco di Giuseppe Albanese e la versione per orchestra, unitamente ad I’ve Been Loving You Too Long di Otis Redding, nulla di più adatto per far dell’autoerotismo sulle tracce de’ Le Spectre de la rose Théophile Gautier, riadattato in danza da Michail Fokin, per un allestimento dei Ballets Russes all’Opéra di Monte Carlo. Il coreografo Nyko Piscopo, ha fatto invocare verbalmente la ballerina e tutti noi a ritrovarsi e a ritrovare l’amore, la propria sessualità, la vagina, il dialogo, a vivere oltre il sogno il proprio punto culminante, caratteristica del fraseggio romantico dei due brani scelti. In questi tre lavori si è così affrontato il tema del corpo e del suo rapporto con la psicologia individuale, quest’ultima vista quasi sempre come elemento negativo, al di fuori del Sa Rose, che è un invito al rispetto di se stessi a trasformarsi in segno, fuori della massificazione, grazie a tutte le arti e, naturalmente, a quell’amore che le unisce e ci unisce. Applausi e l’invito ad un presto ritorno per la Compagnia Cornelia.