Rino Mele
Non riuscì l’Italia a diventare la Repubblica democratica dei lavoratori. Su questa dizione, che avvampa come un incendio, nella prima sottocommissione dell’Assemblea Costituente, Togliatti e Dossetti erano d’accordo che questo dovesse essere l’articolo 1, l’incipit della Carta costituzionale: ma fu votata una soluzione meno forte e più generica (“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”). Basterebbe questo per far capire la grandezza e la sconfinata purezza politica di Giuseppe Dossetti deputato democristiano. Si parlerà di lui domani, nella Sala Torre della Provincia, presentando un pregevole libro curato da Giusppe Giliberti e Davide Ferrari, per le edizioni Intra, dal titolo suggestivo, “Le orme di Dossetti”: saranno in molti a discuterne, a parlare, tra essi Luigi Gravagnuolo e Guglielmo Scarlato. Risuonerà – nel ricordo di Dossetti – la voce della politica non strumentale, pura, confinante col sacro.
Per Dossetti, gli schemi e i giochi di appartenenza erano niente rispetto alla verità. Durante i faticosi lavori per redigere la Costituzione, la congruenza, quasi un rispecchiamento, che il PCI trovò con la sinistra sociale democristiana di La Pira e Dossetti scandalizzò molti ma Togliatti difese quell’inaspettata alleanza e lucidamente rispose: “Vi era qui un altro punto di confluenza della nostra corrente, socialista e comunista, con la corrente solidaristica cristiana. Non dimenticate infatti che socialismo e comunismo tendono a una piena valutazione della persona umana: a quella piena valutazione della persona umana, che noi riteniamo non possa essere realizzata se non quando saranno spezzati i vincoli della servitù economica, che oggi ancora opprimono e comprimono la grande maggioranza degli uomini, i lavoratori”.
Giuseppe Dossetti, nel 1959 diventa sacerdote, dopo essersi dimesso da professore universitario ed essere tornato malvolentieri, per un breve intenso periodo, a fare politica, opponendosi all’egemonia comunista al comune di Bologna, perdendo le elezioni.
Molti, molti anni dopo, il 20 maggio 1995, a Napoli al Teatro Mercadante, ormai tanto vicino alla morte da toccarla, parla della Costituzione, del suo sogno di redenzione attraverso la politica e dell’estremo impegno morale che ognuno deve affrontare, ma sente che il male continua a prevalere imbellettandosi di verità, e dice: “La stessa sovranità popolare diventa una sovranità mitica, a cui in pubblico e nei discorsi seduttori si rende culto e la si sopraesalta, ma di fatto in sostanza la si vìola: delegittimando le sue rappresentanze elettive (il Parlamento), tentando sempre più di comprimere l’indipendenza dell’ordine giudiziario, moltiplicando estrose e indebite pressioni sulla Corte Costituzionale, e finalmente cercando con ostinazione sistematica di ridurre sempre di più la libertà della suprema magistratura della Repubblica”. Parole pronunziate, da noi, a Napoli, quasi trent’anni fa, tristemente attuali come il ritorno di un incubo: ora che l’ipotesi concreta del premierato tende a sciogliere la figura del Presidente della Repubblica, trasformarla in ombra.
Dossetti, Moro e La Pira – da destra – durante una pausa della prima sottocommissione dell’Assemblea Costituente, 1947)