di Olga Chieffi
Se Gioachino Rossini si paracaduterà in palcoscenico dal cielo del teatro per dirimere quel “nodo avviluppato” creato da lui stesso nel finale del I atto, Isabella, che avrà la splendida voce di Elmina Hasan, sarà una donna pilota livornese, la quale sulla scia delle pioniere del volo, della cantante lirica Elisabeth Thible, che il 24 giugno 1784 superò i 2000 metri su un pallone sferico , e le nostre, la contessa Mary Macchi di Cellere, portata in volo da Wilbur Wright nel 1909 su di un aereo a motore e, ancora, la prima donna aviatrice, la baronessa francese Raimonde de Laroche, con brevetto datato 1910 e Rosina Ferrario della Scuola Caproni di Vizzola Ticino, che partecipò, insieme agli assi dell’aviazione, alle celebrazioni del centenario verdiano di Busseto, e le prime signore dell’aria la marchesa Carina Negroni Massone e Maria Teresa Cassini (da “La musica e il volo” di Enrica Donisi), traverserà il mare per andare a riprendersi il suo Lindoro (Juan De Dios Mateos), archeologo, imprigionato in Algeri da Mustafà, al quale darà corpo e voce il basso napoletano Carlo Lepore. Questa l’idea della regista Sarah Schinasi, per questa Italiana in Algeri, che andrà in scena domani e domenica 19 maggio, di formazione musicale italiana e anglosassone per quel che riguarda il teatro, la quale ha immaginato Isabella una donna forte, una virago, che alza i pesi, tira di boxe, coraggiosa, capace di accettare ogni sfida, sia fisica che amorosa, nel suo stile, ragioni estetiche, queste, illustrate ieri mattina, nell’incontro nel foyer del massimo cittadino, ospite di Antonio Marzullo. Dramma giocoso recita il sottotitolo in partitura e il maestro, giovane, Gaetano Lo Coco, che si troverà difronte un cast esperto che vanta, oltre Carlo Lepore, il baritono Marco Filippo Romano, che vestirà i panni di Taddeo, voci e recitazione di tutt’altra categoria, affiancate da Mariam Battistelli, che sarà Elvira unitamente a Rosa Bove (Zulma) e Nicola Ciancio (Haly), entrambi di scuola e cuore salernitano, di personaggi, invece il coro ne interpreterà ben tre agli ordini di Francesco Aliberti con veloci e “feroci” cambi d’abito e ben 23 scene, curate da Alfredo Troisi. Il Maestro Lo Coco, tenterà di rispettare il “dramma” in partitura, ispirandosi al sorriso rossiniano, capace di creare un mondo altro, dove non vige soltanto la battuta leggera, ma burrasca e pensiero, condotti con sapienza e frenesia, attraverso cui non fa sconti a nessuno, sia ad Oriente che ad Occidente, un teatro che il direttore si è sentito di paragonare allo straniamento brechtiano: i protagonisti d’opera buffa, scontata la deformazione della satira, sono difficilmente catalogabili fra gli individui che ci circondano, ma lasciano pensare. L’adozione del belcantismo come linguaggio idiomatico risulta perfettamente in linea con la scelta di soggetti e personaggi che si trovano a bell’agio nel mondo platonico delle idee, piuttosto che nella sua imitazione terrena. L’opera viene confezionata con materiali musicali semplici e ripetitivi, che taluni hanno giudicato poveri, annoverando Rossini fra gli antesignani del minimalismo e confondendo il dono sublime della semplicitá con la mancanza di idee. Rossini compie il prodigio, invano inseguito dagli alchimisti medioevali, di trasformare in oro la materia vile e affronta tematiche di vertiginosa complessitá affidando a poche, limpide immagini il compito di trattare concetti di abissale profonditá. Un’inventiva quella di Rossini, tanto ciclonica da spostare l’ordine comune delle cose per trasferire tutto in volo, in una specie di volante follia. Ma è un rapimento veloce, come in un frullatore mentale, che ha perduto i freni, assurdità se si crede, ma senza ambigui moralismi e sottintese disperazioni. Salvo qualche momento elegiaco o carezzevole, è proprio il comico allo stato puro, realizzato musicalmente e sollecitato, ecco dove compare il realismo, dalla volontà di fare della caricatura fino allo spasimo, ma senza il grottesco doloroso dal quale parte il distacco del surreale. Rossini non è un intellettuale solitario, è un borghese di finissima intelligenza che, dopo tanti anni di finte riverenze, di risatine acide e livori compressi, finalmente ci sbruffa in faccia la sua franchezza. Ascoltando il finale primo, la carica di voci e il vortice che ne deriva, tra squillare di fanfare e do sovracuti, ci accorgiamo che questa vitalità ha origini lontane, quelle allegre brigate toscano-bolognesi, tra l’Ars nova e il madrigale alla Banchieri, in cui faceva spettacolo il ricorso all’onomatopeia, il contrappunto “bestiale” alla mente e il fitto ribattere anche omofonico delle parti. E’ inutile dire che qui i personaggi singoli hanno più spicco: Elvira lamentosa che svolazza con la voce, senza scopo, alla quale Zulma sembra fare le boccacce, tra la filosofia brutale degli eunuchi. Mustafà, burbanzoso, imbonitore, osannato dal coro, fabbrica riccioli vocali, dai quali vien giù di brutto quando perde il controllo autoritario, Lindoro, col suo amore in mente, presentato dalla nostalgia del corno, quindi Isabella, che non arretra mai e invita i suoi a mostrarsi qual sono, Italiani, pagina imprevista, addirittura un comizio prerisorgimentale, che la caratterizza quale donna più audace dell’uomo. Naturalmente le donne amano, ed è il loro unico punto debole: pur col fucile in mano, Isabella salterà in braccio a Lindoro, lanciando qualche smorfietta all’esercito di maschi che le andrà dietro obbediente ed ordinato.