È il mare delle griffe che ora bagna Napoli - Le Cronache
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È il mare delle griffe che ora bagna Napoli

È il mare delle griffe che ora bagna Napoli

Di Silvia Siniscalchi
“Tarantelle, canzoni, sole e mandolino, a Napoli si muore a tarallucci e vino!” cantavano nel 1977 Lello Arena, Enzo De Caro e Massimo Troisi. A ritmo di chitarra, tamburello e putipù, i tre indimenticabili componenti de “La Smorfia” denunciavano il contrasto tra le rappresentazioni oleografiche della città partenopea e i problemi di sopravvivenza dei suoi abitanti. Una critica artistica per il sociale condotta sul filo di un discorso avviato circa un secolo prima da Matilde Serao, appassionata cronista delle profonde contraddizioni del Risanamento di Napoli di fine Ottocento, con le monumentali facciate dei palazzi del Rettifilo poste a paravento di vicoli bui e maleodoranti. Mentre qui il lerciume materiale e sociale sterminava il senso morale ed esistenziale della popolazione, i fratelli Lumiere documentavano il via vai di passanti e carrozze nell’affollata e vivace via Toledo, costellata di cavalli, ombrellini, pagliette, ma anche di carri e lazzaroni, a fare da corredo pittoresco per lo spirito girovago di sognatori e flâneur. Scrittori, vedutisti e musicisti lo alimentavano con le loro opere: dai Borbone al Regno d’Italia Napoli è la città del Vesuvio fumante di Johann Wolfgang von Goethe, delle vedute pittoriche di Jakob Philipp Hackert e degli artisti della Scuola di Posillipo, molto apprezzate soprattutto dagli inglesi ai primi del XIX secolo.
Ma è anche la capitale di una tradizione musicale che Guillaume Cottrau trasforma in un marchio “glocale” con le sue trascrizioni divenute famose in tutta Europa, influenzando linguaggi e forme della successiva canzone d’autore napoletana, come evidenziano Pasquale Scialò e Francesca Seller. La contaminazione culturale è alla base della ricchezza degli spunti melodici e armonici della musica partenopea, in una rappresentazione performativa che sopravvive alle più realistiche e crude descrizioni di scrittori e intellettuali attivi a Napoli nel Secondo Dopoguerra (tra cui Annamaria Ortese, Michele Prisco, Domenico Rea), del cinema neorealista (da “Napoli milionaria” di Eduardo De Filippo a “Paisà” di Roberto Rossellini) e alla critica politico-sociale portata avanti tra gli anni ’80 e ’90 del secolo scorso da artisti come Pino Daniele, Enzo Avitabile, Edoardo Bennato, i 99 Posse e via enumerando. Una sopravvivenza “contaminata” garantita anche da un certo tipo di cinema che racconta la sirena Parthenope divenuta Carmela con toni iperbolici (come nella “Ninfa Plebea” di Lina Wertmuller, trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di Domenico Rea), stucchevoli (come nella città “svelata” di Ferzan Özpetek) o spettacolarmente delinquenziali, come avviene nel film “Gomorra” (versione per il cinema di Matteo Garrone del libro di Roberto Saviano), divenuto poi una serie TV di cui le storie di redenzione di “Mare fuori” sembrano costituire la versione speculare. Di questa Napoli di degrado e redenzione parlano anche gli artisti del Red Bull 64 Bars Live@Scampia, spettacolo pubblico di musica rap, di cui è diventato un celebre rappresentante Geolier (al secolo Emanuele Palumbo), protagonista dell’ultima edizione del Festival di Sanremo e di un contestato invito da parte dell’Università Federico II a incontrare gli studenti dell’Ateneo napoletano. Le sue canzoni – ha dichiarato il Rettore Matteo Lorito – lanciano messaggi forti e possono raggiungere i giovani “che esprimono difficoltà, che vivono una condizione sociale di sofferenza, di mancanza dello Stato, di volontà di riscatto”, aiutandoli a credere nelle proprie capacità e nei propri talenti, così come ha fatto lo stesso Geolier, partito da una periferia difficile come il quartiere di Secondigliano. I suoi testi parlano in effetti di giovani irretiti dalle griffe (“P Secondiglian”), dai soldi (“Ricchezza”), dalla droga (“Narcos”), coinvolti in storie romantico-sentimentali (come recita la canzone “I p’me, Tu p’ te”, presentata al Festival), e si esprimono con una lingua ritmico-gutturale quasi incomprensibile che imita il timbro dei sintetizzatori vocali e lo fonde con il dialetto dei protagonisti di Gomorra. Messi per iscritto sono trascrizioni parafonetiche, esito di un’involuzione dell’intelligenza linguistica, secondo alcuni meritevole di essere studiata quale manifestazione di cambiamenti paragonabili al famoso Placito di Capua (“Sao ko kelle terre per kelle fini que ki contene trenta anni le possette parte Sancti Benedicti”). Ma, al di là delle buone intenzioni e delle curiosità intellettuali, Geolier e i giovani della sua generazione sembrano essere “prodotti artistici” perfettamente funzionali a un circuito produttivo di rappresentazioni oleografiche della napoletanità.
Se prima Napoli era il paese del sole e del mare, oggi l’immaginario collettivo si nutre delle sue immagini di città del crimine e della camorra, dove il cinema e la musica trasformano gli antieroi in protagonisti e modelli replicabili dei nostri giorni. “Si sdogana così un’immagine rovesciata della città, ma con un marchio di fabbrica dal successo garantito”.