Il cavallo, il melone e la rosa per uno sviluppo dal cuore antico - Le Cronache
Cronaca

Il cavallo, il melone e la rosa per uno sviluppo dal cuore antico

Il cavallo, il melone e la rosa per uno sviluppo dal cuore antico

di Oreste Mottola
Dov’è oggi il possente e svettante cavallo Persano diventato il logo della Ferrari? E la rosa di Paestum? Negletto anche il destino del melone di Altavilla “smerciato” e falsificato durante delle frettolose sagre Il cavallo se l’è data a gambe ed è approdato a Carditello, per poi ritornare a Persano, sempre in attesa una “valorizzazione” che non è mai arrivata. Anche la rosa pestana se la passa male, costretta a coltivazioni che nulla hanno a che fare con la “biferique rosaria Paesti”. Quest’ultima vicenda è lunga e risale a Johann Gottfried Seume, militare ed uomo di cultura austriaco, che già nel 1802 venne a Paestum. Aveva letto ciò che avevano scritto Virgilio,Properzio, Marziale. E si era entusiamata a quella piana pestana colorata dal rosso delle rose. A quelle rose “color vermiglio”, già allora sparite dall’orizzonte. Oggi domina il verde brillante del mais che alimenta le bufale e quello più verde ferroso dei campi di carciofo. Al tempo che ci venne Seume c’erano paludi estese a perdita d’occhio. Con poche bufale. L’austriaco si arrabbia così tanto che alla visita a Paestum dedica solo due ore. Scriverà anche – come racconta il professore Mario Mello – uno sfogo contro l’ignoranza e l’incuria dei locali, che non avevano salvaguardato il loro patrimonio, ed anche contro la loro mancanza di spirito imprenditoriale (critiche attuali o datate?), in quanto le rose pestane avrebbero potuto costituire un ottimo affare, come souvenir da vendere ai turisti. Duecento e più anni dopo la situazione è simile. Non ci sono più le rose di Paestum e sono scomparsi anche i meloni di Altavilla. Che avevano meno glamour storico e letterario ma erano un trionfo di sapori e lenivano le arsure estive. LA MELONESSA ALTAVILLESE. Anche negli altri centri della Piana del Sele e degli Alburni, per onomastici e compleanni, l’omaggio più gradito era proprio quello della “melonessa” altavillese. Era il simbolo dell’amore, della freschezza e dell’amicizia. Basta coi meloni, non è ancora la stagione e torniamo alla rosa cantata da Ungaretti e da Alfonso Gatto. Ora Gerardo e Gaetano, spinti dall’ostinazione dell’agronoma Rosa, provano a convincere un po’ di coltivatori a rimettere nei loro semenzai quell’antico seme. Sperando che la natura aiuti e che non ci si rovini la piazza “spacciando” per altavillese ciò che non è. Destino comune quello del cavallo, della rosa e del melone. Ma c’è chi non si arrende e va premiato almeno per la sua inventiva.
Le rose di Paestum nascevano sui rovi
Le rose di Paestum germogliavano da rovi appositamente innestati. “Ipotesi ardita e fascinosa” chiosa Giovanni Guardia, direttore responsabile degli “Annali storici di Principato Citra” la prestigiosa rivista di storia che per prima (nel fascicolo del Tomo 2/2010, anno VIII n.2002) ha reso note le conclusioni alle quali è giunto Fernando La Greca, certosino studioso di storia romana in forza all’università di Salerno. Un’ipotesi che potrebbe continuare ad appartenere alla speculazione intellettuale se Filomena De Felice, esperta d’innesti, che opera nel tempo libero nel suo bel giardino in collina ad Agropoli, a pochi chilometri da Paestum, dove non mancano le siepi di rovi, non avesse avviato degli esperimenti per verificarne la fondatezza dell’ipotesi formulata da La Greca. Il risultato? Una rosa centifoglia, non molto profumata, ma di un colore rosa intenso, ma molto grande. E’ questa la rosa di Paestum? Certo è che c’è il riscontro di fatto a un’ipotesi ancora intellettuale e la risposta all’interrogativo sulla quasi improvvisa sparizione di una varietà di fiore sulla quale l’antica Paestum fondò la sua sussistenza economica. Quella “rosa bifera”, detta così perché fioriva due volte nell’anno, era un ibrido che – se non curato manualmente dal coltivatore – era destinato a ritornare rapidamente allo stato naturale di partenza. Che possa essere andata effettivamente così lo racconta anche “L’affresco con rose” che troviamo a Pompei, nella Casa del bracciale d’oro. Qui la pianta di rosa è sostenuta da una canna, più o meno come i contadini fanno oggi con le coltivazioni di fagioli o di pomodori. La pianta di rovo, abituata ad andare per conto suo, doveva essere necessariamente ordinata così, anche per rendere più facile la raccolta. Di particolare interesse il metodo seguito da La Greca. Il ricercatore ha ripassato tutte le fonti disponibili fino ad avere “l’illuminazione” a partire da un brano di uno scrittore tardo latino: Ennodio: “L’attività operosa dei pestani fece sì che i cespugli spinosi (dumeta) generassero rose, le quali mediante il lavoro germogliano dagli spini come stelle dalla terra”. Ennodio è un personaggio particolare, è vescovo di Pavia al tempo di Teodorico, scrittore di grande erudizione e amante della letteratura pagana. La sua intuizione è stata quella rileggere alla lettera lo scritto di Ennodio sulle rose di Paestum, e non più metaforicamente, e traducendo in modo più preciso dumeta con “cespugli di rovi”. I Pestani non innestavano semplicemente le rose tra di loro, “operazione tutto sommato – scrive La Greca – banale, ma sui rovi, o, se si vuole, su arbusti spinosi della stessa famiglia (rosacee)”. Continua La Greca: “Il colore è di un rosa intenso, e manca il profumo; ancora non siamo in grado di stabilire se sia bifera, per quanto a ottobre abbia messo fuori una nuova gemma con foglioline. Molto dipende anche dal genere di rosa usato come innesto, e bisognerebbe fare numerose prove con rose diverse. Tuttavia pensiamo di essere sulla buona strada, avendo dimostrato che l’innesto della rosa sul rovo è possibile, e valido anche rispetto alle antiche esigenze commerciali, trovando la sua convenienza nella produzione di una rosa di notevole grandezza, bella a vedersi e ricca di petali. Non sarà ancora la rosa Pestana antica, ma almeno pensiamo di aver ritrovato l’antico modo di lavorare Pestano, il particolare labor o industria che diede a questa rosa una fama imperitura”. Fin qui la testimonianza di Fernando La Greca. Sulla questione della “sparizione” di questa rosa così particolare si sono misurati fior di storici e letterati (da Corrado Alvaro a Eugenio Montale) e a noi piace ricordare il grande romanziere Riccardo Bacchelli (sì, quello del “Mulino del Po”) che il 7 ottobre 1927, su “La Stampa” pubblicava il suo elzeviro intitolato “Rose di Pesto” : “Lungo tutta la costa amalfitana ed oltre, in molte regioni del Mezzogiorno, si dicono le rose di Pesto per dir la cosa più olezzante e più colorita. Si vuol che i naviganti le sentano odorare fin in mare, e che siano tanto rosse da parer nere. Eppure, a Pesto, celebrata per le sue rose da Virgilio e da Ovidio e dagli altri poeti latini, rose né rosai non se ne vedono, neppur la minima apparenza. Fioriscono peraltro nella memoria e nella parlata del popolo, e veramente non son morte. La sventura e le rose di Pesto vincono ugualmente l’oblio e la caduta dei secoli”. Dall’oblio ha trovato la via per farle tornare, rileggendo gli antichi scrittori, Fernando La Greca.
LA SCHEDA.
Le rose di Paestum erano famose nell’antichità per qualità e profumo. Virgilio, Properzio, Ovidio, Marziale e altri parlavano di rosai coltivati a Paestum. Le caratteristiche tipiche delle rose pestane sono il colore rosso, il profumo ed il fiorire due volte all’anno. Nell’antichità, a partire dal I secolo A.C., a Paestum c’erano ampie distese di colture di rose su terreni fertili che venivano coltivate da persone esperte. Il commercio delle rose era basato probabilmente su rapide navi di trasporto che assicuravano la freschezza di tali fiori. Roma era una delle città che più acquistava rose di Paestum. Le rose erano utilizzate anche per produrre profumi.