di Michelangelo Russo
E’ scomparso all’improvviso quello che ritengo sia stato il più grande cardiologo di Salerno, Ernesto Marchione. Non che di cardiologi di eccellenza non ve ne siano parecchi. Cardiologia a Salerno è stata un polo di fama nazionale. Ma c’è stato un nome, quello di Ernesto, che senza avere, per scelta, inseguito cariche accademiche universitarie o posti di primario, nonostante il riserbo caratteriale e la personalità schiva dal plauso pubblico, è stato quello dinanzi al quale l’intero corpo dei medici del territorio chinava la testa in segno di omaggio. Fummo allievi del Liceo Classico De Sanctis, alla metà degli anni ’60. A quell’epoca, il liceo classico era ancora una scuola di élite, riservata a pochi. Selezioni spietate creavano un gran numero di ripetenti. Una scuola classista che pretendeva la buona educazione prima ancora del buon profitto scolastico. Ma il De Sanctis, nato nel 1963, era un liceo più aperto del plumbeo Liceo Tasso di Piazza San Francesco, deve il fascismo stava nell’architettura greve del palazzo e nello scherno permanente dei diversi e degli innovatori che facevano gli aderenti alla Giovane Italia, la gioventù fascista, ancora potente a quel tempo tra i rampolli della borghesia. L’aria del tempo nuovo al De Sanctis già spirava. C’era la freschezza del dialogo aperto tra i ragazzi e il corpo docente. Difficile rendere in breve l’elettricità tutta degli stimoli intellettuali che c’erano in questo liceo di “periferia” (via Capone, traversa di via Irno). Ma c’era una classe, nella sezione A, che era un esempio indicato a dito ogni giorno a tutti noi studenti come esempio ineguagliabile di assoluta eccellenza nello studio. Tra i molti campioni di bravura della seconda A (il quartultimo anno) c’erano nomi come Pino Acocella e Pasquale Andria, ma su tutti svettava il nome di Ernesto Marchione. Giacca e cravatta fin da quando aveva quattordici anni, lo ricordo massiccio e gioviale, e mai banale nei discorsi di corridoio. Non era un passionale, si vedeva, in un tempo di giovani che scoprivano la bellezza delle passioni e degli ardimenti. Ernesto era una leggenda; aveva una media scolastica pazzesca, di quelle che fanno saltare l’asticella della misurazione. Nelle traduzioni delle versioni di greco, odiatissime da noi comuni mortali, si diceva che Ernesto traducesse il brano non in italiano, ma direttamente in latino. Non ho mai capito se lo facesse per una sorta di vanità (giustificata) o se per sfottere lievemente il professore Giovanni Esposito, comunista dichiarato con cui, con garbo, lui cattolico, si rimbeccava sovente. In effetti, costringeva il professore a fare un doppio lavoro di traduzione. La generazione di studenti-signori, che precedette di pochi attimi il ’68, fu così: educata e puntuale, ma ribelle con modi anticonformisti, come l’esibizione di una conoscenza acquisita con iniziativa propria, al di là dei programmi scolastici. Ernesto Marchione non studiava letteratura o storia durante l’anno. All’inizio dell’anno scolastico aveva già letto gli interi testi. E quando, nel giugno del 1965, nei quadri dei voti di ammissione all’esame di maturità il mio otto in italiano parve una vetta invidiabile e rara, il suo nove finale di ammissione alla terza liceo mi guastò tutta la gloria. Ricorsi ad Ernesto nel 1982. Ne ebbi bisogno per mio padre, colpito da un infarto. Glielo affidai, sapendo quello che facevo. Gli salvò la vita: a quel tempo solo a Verona si operava sul cuore. Mio padre tornò operato, ma non guarito; anzi, in grave scompenso. Per quaranta giorni Ernesto se lo tenne in corsia, operando il miracolo. Gli chiesi il perché di quegli intoppi. Mi espresse la sua filosofia e il suo credo medico. “A taglià e a cosere non ce vole assai! E’ la medicina che è difficile”. Vale a dire: il valore del medico risiede alla fine nella sua capacità di analisi dei dati clinici. Nel ragionamento e nel coraggio delle decisioni difficili e faticose. Ernesto ha salvato più volte la vita anche a me, diventato suo paziente da molti anni. Ma non ci sono parole per descrivere le fulminati intuizioni di questo medico straordinario: intellettuale raffinato che incuteva involontariamente soggezione. Qualche anno fa, nella sua grande casa stipata di libri ovunque, discutendo, mi citò un passo di Omero in greco, pensando che lo capissi. Feci di sì col capo, per non deluderlo. E capii che la magia delle sue intuizioni cliniche veniva da quei giorni lontani in cui traduceva l’Anabasi di Senofonte direttamente in latino. Per sfottere benevolmente, ma sì, il professore comunista Giovanni Esposito (che gli dava 9 in latino e greco)!