Lunedì, alle 19, presso il Teatro Porta Catena di Salerno, Alfonso Amendola, Pasquale De Cristofaro e Andrea Manzi dialogheranno con Peppe Lanzetta in occasione della riedizione del suo “Un Messico napoletano. Con ballate scelte da Ridateci i sogni” (Roberto Nicolucci Editore). L’incontro, promosso dalla collana editoriale Corponovecento, si svolgerà in collaborazione con Open Class e con RQ-www.resistenzequotidiane.it, il magazine culturale da venti giorni in rete, fondato da Andrea Manzi, che lo coordina con la giornalista Barbara Ruggiero. Qui di seguito, ospitiamo una recensione al libro di Lanzetta del regista e drammaturgo Pasquale De Cristofaro.
di Pasquale De Cristofaro
Quando penso a Peppe Lanzetta e al suo mondo senza “grazia” – dis-graziato – ma col cuore appassionato e lirico, ai suoi ragazzi e ragazze cresciuti nella strada tra rifiuti, piste di cocaina, eroina e malaffare, mi viene, per una “stranezza” tipica di chi lavora sui testi e gli autori, di metterlo affianco ad un personaggio pirandelliano che da sempre turba il mio immaginario: Cotrone dei “Giganti della montagna” del grande Luigi Pirandello. Il suo obiettivo è sempre puntato sugli ultimi, sui senza gloria, sui marciapiedi delle periferie metropolitane, dove non c’è più traccia del colore tipico di una sempre più inopportuna napoletanità, ma dove sono presenti quintali di dolore e una disperazione che non può essere oltremodo post-datata. Una città, la sua, “che suda, che spesso non si lava, ma ha sempre saputo farsi amare”. Il suo linguaggio è aspro e duro come “cocci aguzzi di bottiglie” che graffiano e fanno male ma scavano solchi profondi nel cinismo e nell’indifferenza di un nostro mondo sempre più immerso in una gigantesca bolla pubblicitaria e travolto da un consumismo che si sta mangiando le nostre anime. E’ come se raccontando questo, Lanzetta si fosse messo un po’ di lato, si fosse dimesso dall’agone mondano e ritraendo questi strambi e sfiniti “figuri” ne facesse un campionario apocalittico che rinvia all’unica salvezza possibile quella cioè di un mondo di carta che ne conservi gelosamente la memoria. T
esti preziosi i suoi, scomodi, inopportuni, apparentemente inattuali per un mondo che finge di correre verso paradisi di artificiosa felicità, ubriacature ed euforie che distraggono dalla voragine che effettivamente ci circonda. I suoi testi sono una vertigine maliosa che descrivono il nostro inferno quotidiano con una inesauribile energia, un ritmo dionisiaco difficile da sopportare.
Eppure chi riesce ad andare fino in fondo prova sulla sua carne l’esperienza della verità. Così, Cotrone che rititatosi presso la villa della Scalogna con i suoi adepti (gli scalognati, quanto somigliano ai personaggi che ballano fintamente allegri nei racconti di Lanzetta) vuole trovare riparo da una società che ha perduto i caratteri della sua umanità.
Una società cinica e bara che non ha più necessità della bellezza, che declina solo fortune economiche e successo misurato dal conto in banca. Eppure, per un tratto Napoli era sembrata anche al grande Pasolini un rifugio, un porto sicuro, un baluardo al dilagare del cinismo del “nuovo fascismo” della società dei consumi. Una città arcaica, coi suoi femminielli, i trans, i migranti, figli di un Dio minore, d’ogni latitudine; una città mondo, accogliente e tollerante.
Macché… La Napoli di Lanzetta è grigia, spesso piovosa con troppi morti di droga e di camorra. In questo letame, però, può nascere, come per miracolo, una straordinaria storia d’amore come quella di Anna, detta la Rossa (come è forte questo rosso che si contrappone al grigio delle periferie metropolitane), e Marco, in “Messico Napoletano”, di Lanzetta ripubblicato dopo trent’anni esatti da Roberto Colucci Editore. Trent’anni fa lo pubblicava con grande successo Feltrinelli ora viene opportunamente riproposto e, ne siamo certi, con la stessa fortuna, perché la storia della Rossa e di Marco mantiene tutta la sua forza e la sua efficacia. Sembra tutto un film, un film ancora possibile, una pellicola non sfuocata ma bella e tragica come la vita.