di Clemente Ultimo
L’aggressione da parte di un orso ai danni di un podista 26enne sui sentieri del monte Peller in Trentino, conclusasi con la morte del giovane, ha acceso un vivace – a tratti violento – dibattito sul futuro del plantigrado, con le opposte “tifoserie” a sostenere la necessità dell’abbattimento o del trasferimento dell’animale. Con l’inevitabile corollario, siamo pur sempre in Italia, di battaglie combattute a colpi di carta bollata nei tribunali amministrativi. Quel che è mancato, salvo sporadiche eccezioni, è una attenta riflessione sulle scelte fatte a cavallo tra gli anni ’90 e l’inizio del nuovo secolo, quando sono stati avviati diversi progetti di reinserimento di animali selvatici in Italia e sulla gestione degli stessi. Su questo tema – che interessa l’intero territorio nazionale, visto il proliferare di lupi e cinghiali, presenti in maniera significativa anche nel Salernitano – è intervenuto Andrea Di Mauro, responsabile per le politiche rurali e venatorie dell’associazione “Sole e Acciaio”.
«Prima di fare qualche considerazione di carattere generale, ritengo opportuno partire da una rapida analisi del progetto Ursus, quello che a fine anni ’90 ha visto la reintroduzione dell’orso in Trentino Alto – Adige. Nel 1999 la popolazione autoctona era stimata in tre esemplari, nel giro di due/tre anni sono stati immessi sul territorio circa dieci orsi provenienti dalla Slovenia. Nel giro di un ventennio la popolazione di orsi ha raggiunto il centinaio di esemplari stando ai dati dell’Ispra, mentre secondo la provincia di Trento ha superato i 150. A questo punto va sottolineato come l’orso bruno eurasiatico sia molto diverso dall’orso marsicano che popola il parco d’Abruzzo: ha un carattere più aggressivo e un’alimentazione prettamente carnivora. Fatte queste premesse, possiamo provare a ragionare sui limiti della gestione di questo progetto o, se vogliamo essere più severi, sulla mancata gestione degli esemplari immessi e della popolazione cui hanno dato origine».
Quali sono le falle principali a suo giudizio?
«Su tutto la mancata applicazione del principio della selezione conservativa. Principio che, ad esempio, consente ai Paesi dell’Europa settentrionale e orientale di gestire senza problemi popolazioni di selvatici ben più numerose di quelle italiane: basti pensare che in Romania, stando ai dati disponibili, vivono circa 6mila orsi, nella piccola Slovenia oltre 1.200».
Cosa si intende per selezione conservativa?
«Significa tenere sotto controllo la popolazione di selvatici attraverso abbattimenti selettivi. Si badi bene, non si tratta solo di contenere il numero di esemplari presenti sul territorio, ma, appunto, di selezionarli: in questo modo l’abbattimento sarà effettuato per gli esemplari malati, molto vecchi o particolarmente aggressivi, come nel caso dell’orsa che in Trentino ha ucciso il podista 26enne. Attraverso questa pratica si raggiungono risultati apparentemente sorprendenti. Si pensi al caso sloveno: quest’anno è previsto l’abbattimento di circa 230 orsi, ma nonostante questo la popolazione è in aumento del 3%. Un risultato paradossale, ma solo in apparenza: tramite la selezione conservativa si migliora la specie, consentendo agli esemplari sani e più forti di vivere e riprodursi. C’è poi un effetto collaterale, potremmo dire così: essendo oggetto di abbattimenti selezionati gli animali selvatici non sviluppano la familiarità con l’uomo, dunque evitano di avvicinarsi. Questo è un aspetto fondamentale della questione: troppo spesso chi non ha familiarità con la montagna, con l’ambiente rurale, tende ad umanizzare gli animali, anche quelli selvatici, attribuendo loro volontà e comportamenti che non gli appartengono, finendo per adottare comportamenti potenzialmente pericolosi o per valutare in maniera distorta progetti che si basano su studi ed evidenze scientifiche».
Le considerazioni fatte per l’orso valgono anche per lupi e cinghiali, animali ormai presenti in maniera visibile anche sul nostro territorio?
«Senza dubbio. Tutti i reinserimenti che vengono fatti sul territorio devono essere gestiti, possibilmente attraverso un processo di selezione conservativa. La popolazione di cinghiali è andata completamente fuori controllo proprio perché non è stata gestita, con gli effetti che ormai tutti possiamo vedere: danni estesi alle culture, aumento degli incidenti provocati da animali vaganti e via elencando».
Alla luce di queste considerazioni, che valutazione si può fare di questi progetti di reinserimento di selvatici sul territorio? Hanno un senso?
«Hanno un senso se sono frutto di una riflessione attenta e, quando realizzati, vengono gestiti. Un esempio, giusto per capirsi: quando nel 1999 è iniziato il processo di reinserimento degli orsi in Trentino è stata fatta una valutazione dell’incidenza della presenza umana sul territorio rispetto al 1899, quando l’oro era naturalmente presente in quella regione e, non si dimentichi, era possibile cacciarlo? Si è valutata la consistenza faunistica e degli allevamenti sul territorio? Le prede principali di orsi e lupi sono gli animali d’allevamento e questo è uno di quei fattori che genera maggior contrasto e va tenuto in considerazione. Quel che deve essere ben chiaro è che nessuno vuole distruggere le popolazioni di orsi, lupi o cinghiali, ma proprio per tutelarli al meglio è necessario gestirle, anche per evitare problemi di sovrappopolazione. Questi ultimi anni dimostrano, piuttosto, il fallimento dell’idea di “protezione totale” che ha ispirato le politiche ambientali del recente passato. Se così non fosse, oggi non sarebbe necessario affidare, anche nei parchi, la selezione di cinghiali e ungulati ai cacciatori al fine di garantire il controllo della popolazione».