di Michelamgelo Russo
L’epitaffio funebre è un ruolo che mal si addice all’editorialista abituato ad articoli che sferzano, nelle intenzioni, errori dei politici e della giustizia secondo il metro censorio di un magistrato che, seppur fuori ruolo per età, è tentato di esprimere senza remore o riserve il proprio parere su quelle che gli sembrano ingiustizie.Stavolta mi tocca parlare di un’ingiustizia senza possibile rimedio. La scomparsa di Paolo Carbone! La morte è sempre un’ingiustizia, per ogni uomo. Ma che sia un Giudice la persona a commemorarne la figura è forse quel rimedio, in appello al destino, che a Paolo carbone sarebbe piaciuto. Come giornalista, quale pure era stato, conosceva l’arte della costruzione delle emozioni, che è un modo atecnico di comunicare ben lontano dal tecnicismo giuridico dell’arringa difensiva. Come giornalista, sapeva quindi che alla fine della giornata umana, resta nell’aria e nella memoria lo spirito lieve del rimpianto per le persone fuori dall’ordinario. Che fosse tale lo avevo capito già al mio arrivo a Salerno; nei primi anni ’80, quell’avvocato che redarguiva tra i denti i colleghi senza toga dinanzi al Tribunale, deplorandone la mancanza di rispetto, mi impressionò. Sapeva che venivo dalla Procura di Milano, e ci teneva a non far sfigurare il Foro salernitano per il malvezzo diffuso di una certa trascuratezza di forma di sapore provinciale. Negli anni diventò avvocato famoso, temuto dai Pubblici Ministeri per l’incisività delle sue difese. Nella massima correttezza delle espressioni, le sue memorie colpivano, mi ricordo, dove c’era il punto debole dell’accusa. Prima ancora di leggere quegli scritti, sapevo dove avrebbe colpito la sua frecciata critica. Spesso, quel punto debole acutamente individuato lo avrebbe portato alla vittoria in dibattimento. Dove il suo pragmatismo lucano, bollato come subdolo da noi Pubblici Ministeri, riusciva mirabilmente a costruire per i collegi giudicanti un labirinto di incertezze e di dubbi che avevano come sola uscita la sentenza assolutoria. Il tutto, nel massimo di una disarmante compitezza che lo portava, alla fine del processo, sempre a stringere la mano al Pubblico Ministero, perfino a quelli (come pure mi accadeva) visibilmente contrariati dall’assoluzione nei difficili processi contro figure potenti di imputati. Gli invidiavo quella assoluta ed elegante convinzione, anche nei casi di eclatante difficoltà per la difesa, di una certezza di vittoria finale. Era tenace, quindi, e nemico per principio della suggestiva scorciatoia delle mediazioni. Non l’ho mai visto trattare sconti in cambio di ammissioni confessorie, soprattutto quando, come negli anni di Tangentopoli, una certa consuetudine di trattative ed ammissioni di colpa evitava le porte del carcere. Diventammo amici, col tempo. Spesso lo incontravo sul lungomare, di sera, nelle sue passeggiate solitarie e veloci. Scambiandoci pareri su uomini ed eventi del Tribunale, non ricordo mai suoi giudizi taglienti e definitivi su alcuno. C’era sempre, nelle sue parole, un giudizio misurato anche su fatti di acclarata ingiustizia. Un giorno, con mia sorpresa, mi chiese una cosa impensabile, che gli generò critiche corporative del Foro e qualche muso storto della mia categoria. Paolo Carbone mi chiese di tenere una rubrica di satira, con le mie vignette, sul giornale del Foro salernitano. E così quel giornale praticamente ufficiale e paludato ospitò l’irriverenza della mia matita, in un gioco fuori squadra da tutto tra un avvocato emerito e un magistrato non allineato propriamente ai canoni del conformismo delle esternazioni. Voglio ricordare Paolo Carbone in quella che ritengo sia stata la sua difesa migliore: la difesa di Vincenzo De Luca, nel 2016, dinanzi alla Corte d’ Appello da me presieduta, avverso la sua condanna in primo grado ad otto mesi per il delitto di abuso in atti di ufficio. Carbone difendeva il Governatore con il Professore Andrea Castaldo. Difesa difficile, e non solo perché l’abuso in atti d’ufficio è un reato insidioso, a volte (e questo era il caso) e la sentenza di primo grado era scritta bene. Ma difficile anche perché il caso verteva tutto sull’interpretazione della norma, e quindi era un processo in punto di diritto, e non sul fatto materiale. Carbone parlò per primo, lasciando le conclusioni al Docente ordinario di Diritto Penale professor Castaldo. Sono le situazioni, nei processi mediatici ad altissimo seguito, più difficili per l’avvocato che parla per primo. Deve evitare di utilizzare gli argomenti dialettici essenziali per chi parlerà dopo. Ma deve pur toccare il punto forte della difesa, che in questo caso era uno e uno solo. L’avvocato Paolo Carbone parlò per un’ora, e difese magnificamente, nell’attenzione più completa della Corte, il Governatore De Luca evitando di creare una sovrapposizione di difese laddove lo spazio per due argomentazioni diverse, su un unico e ristrettissimo punto, non esisteva. Per molti, forse, ma non per questo garbato signor Avvocato che, ancora, quando mi scorgeva dall’altro lato di Corso Vittorio Emanuele, attraversava sempre la strada per venirmi a salutare stringendomi la mano.