di Clemente Ultimo
Meno numerosi e più anziani, quasi certamente sensibilmente più poveri. Questa la poco incoraggiante “fotografia” scattata dal Rapporto Svimez 2022 sulla composizione della popolazione italiana nei prossimi decenni. Un quadro che diventa ancor più fosco se il campo di osservazione si restringe alle sole regioni del Mezzogiorno: se, infatti, il fenomeno dello spopolamento interessa da tempo le aree interne, non solo meridionali, le previsioni demografiche per il prossimo futuro mostrano un divario sempre maggiore tra il Nord ed il Sud della Penisola.
Per avere un’idea precisa di come stanno cambiando gli equilibri demografici italiani è utile prendere in considerazione qualche dato: nel corso degli ultimi venti anni la popolazione residente nel Belpaese è aumentata di un milione e 990mila unità, tra cittadini italiani e stranieri. Una crescita della popolazione residente che, però, si è distribuita in maniera fortemente sbilanciata sul territorio nazionale: se le regioni centro-settentrionali vedono aumentare i residenti di due milioni e 663mila unità, il Mezzogiorno nel suo complesso perde oltre 670mila abitanti. E non più solo nelle aree dell’Appennino, vittime di un processo di desertificazione economico-sociale che prosegue inesorabile – e spesso ignorato – ormai da decenni. Ad
aggravare il fenomeno ha contribuito, e non poco, la pandemia: nel solo 2021 la popolazione si è ridotta di 253mila unità. La contrazione ha interessato solo gli italiani, con il Mezzogiorno che, ancora una volta, ha pagato il prezzo più caro: a fronte di un calo di residente del 3,8% nel Centro-Nord, al Sud i residenti sono diminuiti del 7,5%.
Ad alimentare questo fenomeno c’è senza dubbio anche nelle regioni meridionali la riduzione della natalità, di cui meglio si vedrà oltre, ma ad essa si accompagna la ripresa in grande stile di un fenomeno che ha caratterizzato marcatamente la storia italiana nei primi decenni del secondo dopoguerra: l’emigrazione interna.
Il divario economico tra le due arti del Paese – in costante crescita dalla crisi del 2008 ad oggi, a dispetto di alcuni risultati positivi raggiunti da diverse regioni meridionali in questi anni – e l’offerta di servizi mediamente superiori per quantità e qualità nelle regioni centro-settentrionali sono all’origine di un costante e crescente flusso migratorio sull’asse Sud – Nord. Nel periodo compreso tra il 2002 ed il 2020 – secondo le rilevazioni contenute nel Rapporto Svimez 2022 – poco meno di due milioni e 500mila persone hanno lasciato le regioni meridionali dirigendosi verso il Settentrione, a fonte di circa un milione e 370mila arrivi e rientri. A rendere particolarmente dolorosa questa vera e propria emorragia umana è il dato che si ricava dall’analisi della composizione di questo flusso umano diretto verso nord: oltre la metà di questi emigranti interni sono compresi in una fascia di età che va dai 15 ai 34 anni, circa il 20% è composto da laureati.
Numeri che significano, in concreto, una sola cosa: il Mezzogiorno perde quote sempre maggiori di popolazione giovane, ovvero di energie che potrebbero – se sul territorio meridionale ve ne fossero i presupposti – contribuire attivamente alla vita economico-sociale delle regioni del Sud. Problema acuito dall’alta percentuale di laureati che emigra, ovvero giovani che dopo essersi formati mettono le proprie competenze al servizio di altri territori.
Neanche l’emergenza pandemia è riuscita ad arrestare in maniera
significativa questo esodo interno: nel 2020 sono stati 108mila i meridionali che hanno deciso di trasferirsi al Centro-Nord, nonostante le opportunità offerte dallo smartworking (fenomeno su cui nel prossimo futuro occorrerà avviare una seria ed approfondita riflessione, anche in relazione all’ipotesi di utilizzare questa possibilità come “antidoto” per lo spopolamento delle aree interne). Lombardia, Emilia Romagna e Lazio le regioni di approdo preferite.
Al Sud resta una popolazione sempre più anziana, dunque poco o niente attiva in ambito lavorativo e con crescenti esigenze socio-sanitarie, difficili da soddisfare per sistemi regionali già in forte sofferenza.
Una tendenza di questo tipo finirà nel breve periodo per incidere sensibilmente in negativo sul rapporto tra popolazione non attiva e popolazione in età da lavoro, componente che dovrà essere “pesata” al netto di disoccupati ed inoccupati. Dati e previsioni sono decisamente poco incoraggianti: «se – si legge nel
Rapporto Svimez 2022 – ancora nel 2022 il Sud è la parte del Paese relativamente più giovane, questa condizione non sussiste più (e in modo crescente) dal 2040. Se nel 2002 l’indice di vecchiaia (rapporto tra la popolazione di età pari o superiore a 65 anni sulla popolazione con età pari o inferiore a 15 anni) era del 96,9% a fronte di un 157% del Centro-Nord, nel 2021 i valori sono rispettivamente 168% e 189,8% con la previsione che nel 2070 il Sud arrivi al 329,7% rispetto al 280,8% del Centro Nord».
In assenza di interventi forti, concreti e tempestivi nel 2070 – data relativamente lontana, ma le politiche demografiche agiscono su periodi medio-lunghi prima di mostrare i propri effetti – l’Italia sarà un Paese meno abitato e più vecchi. Ma per il Mezzogiorno sarà possibile parlare di un vero e proprio tracollo: «Il Sud – sottolinea Svimez – da area più giovane diventerà la più invecchiata e perderà 6,4 milioni di abitanti contro i 5,1 milioni del Centro-Nord».
L’inverno demografico è arrivato, al Sud sono iniziate anche le gelate.