Un’emergenza nell’emergenza. È quanto sta accadendo in tutta Italia con una nuova epidemia, ma questa volta non si parla di distanziamenti, contagi, tamponi e quarantene, seppur la situazione sia altrettanto seria. I suini italiani, in particolare quelli che vivono in libertà e dunque la fauna selvatica, sono malati di peste suina africana. Il primo caso si è registrato in Piemonte, il che ha fatto scattare le procedura di sicurezza su tutto il territorio nazionale. Il Ministero ha anche nominato un commissario straordinario per gestire l’emergenza nella figura di Angelo Ferrari ed è proprio lui che sta inviando ordinanze molto stringenti sul commercio e il trattamento della carne suina, in particolare quella selvatica. L’obiettivo delle varie ordinanze è quello di fermare la diffusione della malattia prima che colpisca gli allevamenti di suini. Da sottolineare la non pericolosità della peste per l’uomo, ma un’infezione del genere, derivante dal consumo di carne infetta, non è di certo un toccasana.
«Ogni istituto faunistico che intende praticare abbattimenti del cinghiale nelle aree sottoposte a restrizione – si legge in Gazzetta Ufficiale – deve sviluppare un piano di gestione della biosicurezza con l’obiettivo di prevenire la contaminazione indiretta di operatori e mezzi, ivi inclusi i cacciatori, e la eventuale diffusione del virus in aree indenni. Le attività di abbattimento del cinghiale nelle zone sottoposte a restrizione sono vincolate all’approvazione da parte del servizio veterinario territorialmente competente, del piano di gestione della biosicurezza, che deve rispettare le linee guida riportate nel presente documento. Tale piano deve essere redatto da ogni istituto faunistico, trasmesso ai servizi veterinari territoriali per una prima valutazione e, dopo parere favorevole di quest’ultimi, trasmesso ai servizi veterinari territorialmente competenti per approvazione, sentito il servizio veterinario regionale. L’elenco dei nominativi e dei contatti degli operatori abilitati agli abbattimenti, dei cacciatori autorizzati ad operare nelle zone sottoposte a restrizione, e delle strutture designate per il conferimento delle carcasse devono essere riportati nel piano. Anche personale diverso dai cacciatori e operatori, qualora venisse impiegato in azioni di campo, dovrà adottare le misure di biosicurezza di cui al piano. Non possono essere abilitati ad operare soggetti, inclusi i cacciatori, che detengono suini o lavorano a contatto con gli stessi e tali condizioni devono essere riportate in forma di autocertificazione dai soggetti interessati». L’ordinanza ministeriale prevede anche una particolare formazione per tutti gli utenti coinvolti nel trattamento della carne: «Tutto il personale autorizzato – si legge – deve ricevere una formazione preliminare riguardo l’individuazione precoce della malattia, la mitigazione dei rischi di trasmissione del virus e le misure di biosicurezza da applicarsi. Tale formazione – continua il commissario – viene erogata dal servizio veterinario territoriale in collaborazione con l’autorità sanitaria regionale previa richiesta degli istituti faunistici ricompresi nelle aree di restrizione». Il soggetti interessati».
Il problema principale di questa epidemia è nel consumo di carne di cinghiale derivante da battute di caccia non autorizzate ed effettuate quindi da cacciatori che non hanno permessi o altro. La lavorazione delle carcasse spesso non segue un iter preciso e che soddisfa le varie disposizioni sanitarie e di igiene proprio perché segue un processo non ufficiale e, volendo utilizzare un eufemismo, molto casalingo. Se già di per sé la carne così lavorata costituisce un pericolo per la salute umana, l’epidemia di peste suina africana può solo peggiorare la situazione. Una realtà, quella dei macelli improvvisati, che ha un’altra grave conseguenza e cioè l’errato smaltimento delle carni di risulta. Anche su questo aspetto, il Ministero della Salute è chiaro: «È vietato eviscerare gli animali abbattuti sul campo e lasciare gli organi interni sul terreno. Eventuali parti di carcassa che si ritrovassero sul terreno devono essere rimosse e l’area disinfettata con acido citrico. La carcassa deve essere trasportata intera e in sicurezza direttamente in una struttura designata all’interno della stessa zona di restrizione in cui l’animale è stato abbattuto come ad esempio il punto di raccolta delle carcasse, il centro di sosta, il centro di lavorazione della selvaggina o casa di caccia, andando ad evitare ogni percolazione di liquidi e in particolare del sangue. A tal proposito – si legge – si consiglia di porre la carcassa in recipienti di metallo o plastica rigida in quanto il solo utilizzo di sacchi di materiale tipo nylon potrebbero danneggiarsi».
A tutto ciò, si aggiunge ovviamente il divieto di consumare tali carni. Al momento, casi nel Cilento non se ne registrano, ma il dicastero di Viale Ribotta non vuole correre rischi e sta agendo in maniera forte e decisa, avvertendo i sindaci nella loro qualità di prima autorità sanitaria del territorio amministrato affinché vigilino e facciano in modo di applicare le linee guida.