Dall’Etiopia alla Britannia, fino alla Lucania, le spoglie arrivarono nella città campana. Un corteo in festa con trofei di fiori, “Columbri” sparsi con preghiere e onori. Il Presule Bernardo lo portò sulle spalle, giunse nel duomo fra l’emozione della gente. Nella Cripta barocca la Manna e le Reliquie, San Matteo il suo popolo benedice.
Di Orlando Santoro
Uno degli episodi che la storiografia medievale ci ha tramandato, tra la storia e la leggenda, con una ricchezza di particolari e di significati religiosi e politici, è il rinvenimento delle reliquie di San Matteo apostolo ed evangelista, avvenuto nel 954 in una località della Lucania, che i racconti dell’epoca non specificano esattamente, ma che studi posteriori hanno permesso di identificare con l’antica Velia romana (prima deposizione) e nella località “ad duo flumina”, oggi Marina di Casal Velino (seconda deposizione). La traslazione proseguì, dopo una brevissima sosta a Rutino, verso Capaccio (terza deposizione), la sede vescovile che prese il posto dell’antica Paestum abbandonata e, infine, verso Salerno, dove il corpo dell’Apostolo trovò la sua definitiva collocazione nella Cripta del Duomo. Della traslazione di San Matteo si conosceva fino alla metà del secolo scorso soltanto quanto raccontava una monografia cinquecentesca composta, sulla base di fonti più antiche, dall’Arcivescovo Marsilio Colonna: De vita et gestis beati Matthaei apostoli et evangelistae eiusque gloriosi corporis in Salernitanam urbem translatione, Napoli 1580. Le critiche formulate al Colonna da vari autori portarono, in tempi a noi più vicini, Nicola Acocella a riesaminare tutta la problematica inerente la questione, e ad analizzare tutti i documenti e le testimonianze medievali relative all’avvenimento. L’Acocella ha potuto così ricostruire nel suo saggio La Traslazione di San Matteo. Documenti e testimonianze, Salerno, 1954, tutto il quadro delle vicende relative ai resti mortali dell’evangelista, dimostrando la sostanziale veridicità delle fonti, che furono poi integralmente pubblicate (Giuseppe Talamo-Atenolfi, I Testi Medievali degli Atti di S. Matteo l’Evangelista, 1956) e che risalgono all’anonimo autore del Chronicon Salernitanum della seconda metà del X secolo, un monaco del monastero di San Benedetto di Salerno. Questi avrebbe narrato un avvenimento a lui contemporaneo, limitandosi a trasmettere in un primo tempo una breve notizia nel Chronicon, per poi darne altrove un racconto particolareggiato. Nella essenziale notazione del Chronicon al cap. 165 si legge: “All’epoca dello stesso Gisulfo fu ritrovato il santissimo corpo del beato Matteo apostolo entro i confini della Lucania e, col dovuto onore, per ordine del detto principe condotto a Salerno”. Varie fonti e testimonianze minori successive confermano la notizia e l’epoca della traslazione, ma è il Chronicon Casinense, scritto sul finire dell’XI secolo, ad indicare la data: “l’anno, che è il novecentocinquantaquattresimo dalla nascita del Signore, il corpo del beato apostolo Matteo, che aveva giaciuto per tempi diversi prima in Etiopia, dove era stato anche martirizzato, poi in seguito in Britannia, da ultimo anche in Lucania, fu infine ritrovato per rivelazione dello stesso santo evangelista e trasportato in Salerno”. Nel 954 è principe a Salerno, Gisulfo I. In Lucania, ad una vecchia donna di nome Pelagia, appare nel sonno l’apostolo Matteo, che la comanda di far ricercare, al figlio Atanasio, in un posto ben preciso, tra i ruderi di un’antica chiesa distrutta dai barbari, le spoglie del suo corpo, riposte in un sepolcro. La donna riferì tutto al figlio, il quale subito si accinse alla ricerca, e una volta giunto sul posto, trovò il sacro corpo. Atanasio, preso dalla smania cerco di trasferire le spoglie, in altri lidi, ma per due volte le tempeste del mare, lo costrinsero ad indietreggiare, così decise di nasconderle nella cella di una chiesa dove questi dimorava. La notizia del rinvenimento, arrivò a Giovanni, vescovo di Paestum, che subito si recò da Atanasio, e questi consegnò immediatamente le reliquie, che furono portate nella chiesa cattedrale di S. Maria. Il lieto annunzio giunse nella città di Salerno, e Gisulfo inviò, al vescovo di Paestum, l’abate Giovanni ed altre personalità. Il giorno dopo le reliquie del Santo giunsero a Salerno, accolte con una grande festa dal popolo salernitano, e con una celebre processione, il presule Bernardo si caricò le spoglie dell’evangelista sulle proprie spalle, fino alla cattedrale. Occorre precisare che più complessa è l’individuazione del giorno 6 maggio, non citato dalle cronache. La puntualità cronologica segnala un non casuale collegamento fra la data della traslazione e quella delle celebrazioni del santo apostolo antecedenti. Nel Hyeronymus, Martyrologium del VI secolo, infatti, alla data 6 maggio si trova: In Persida, natalis S. Matthaei apostoli et Evangelistae. La medesima data si trova nel Calendario marmoreo napoletano. Probabilmente per celebrare la traslazione la Chiesa salernitana ha adottato la stessa data in uso in precedenza, diversa da quella del 21 settembre, festività del Santo. Per circa venticinque secoli, ogni anno, il pomeriggio del 5 maggio, giorno della vigilia della traslazione, tutti i parroci della città, si recavano in cattedrale per rendere omaggio al Santo Patrono, portando ciascuno un trofeo di fiori. Questa antica usanza, veniva seguita anche dal popolo, che apparteneva ad ogni singola parrocchia. Nella cattedrale l’arcivescovo svolte le funzioni, e ricevuto l’omaggio, portava in processione per il tempio la reliquia del braccio dell’apostolo Matteo, racchiusa in una teca d’argento del ‘200, che ha la forma di una mano benedicente. Un altro rito solenne che veniva celebrato, era l’estrazione della “Manna”, dalla tomba dell’evangelista, che si trova nel sotterraneo del duomo, sotto l’altare bifronte, dove il Santo è rappresentato da una doppia statua di bronzo del ‘600, fatta dal Naccarino. La mattina del 6 maggio, tutti parroci si recavano al duomo, dove veniva celebrata la Santa Messa, e la cerimonia si chiudeva con la processione della reliquia fino alla porta dei leoni (portale d’ingresso del duomo). Inoltre, in quel periodo, il Rabbino degli ebrei che era residente a Salerno, aveva l’obbligo di inginocchiarsi, affinché l’arcivescovo gli leggesse sul capo chino, il vangelo. L’antico rito dei trofei di fiori, che venivano chiamati ” columbri”, ha originato un lungo dibattito, per capire sostanzialmente, da dove derivasse il significato di questa parola. Secondo alcuni, il termine poteva equivalere a “Faios”, che originato dal longobardo, “Farae”, confondendo gli stendardi che distinguevano le regioni della città, con i trofei di fiori. In verità, attraverso uno studio accurato, la parola “columbro”, era di origine greca. La città di Salerno, per ragioni di traffico marittimo, aveva avuto delle influenze greche, ed il vocabolo in questione veniva utilizzato per indicare i fiori di fico primaticci. Inoltre, anche in epoca angioina, il termine “colummeri”, specie nel napoletano, veniva utilizzato per indicare il frutto di fico. Sicuramente il rito dei trofei aveva origini antichissime, infatti nel periodo del paganesimo, venivano offerti agli dei delle primizie, fra cui i frutti di fico. Con l’avvento del Cristianesimo, venne sostituita alla frutta primaticcia dei columbri, i fiori degli attuali trofei, infatti non venne impedito all’uomo di supplicare l’Eterno per le aspirazioni di cose buone, ma non ammise che la gratitudine si esprimesse verso l’Altissimo, con doni materiali. “Columbri e Festa” per San Matteo, un’antica tradizione che nel corso degli anni si è andata un po’ perdendo, ma che sicuramente non verrà dimenticata, in quanto la città di Salerno sente il bisogno di rivivere la storia del suo Santo Patrono, che resta la figura emblematica dei cittadini salernitani. L’Apostolo Matteo, è fede, tradizione e cultura, oggi si onora l’Evangelista, che unisce un’intera popolazione. Salerno è Mia, Io la Difendo.
San Matteo: Fotografia di FRANCESCO TRUONO