I giudici ignoranti - Le Cronache
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I giudici ignoranti

I giudici ignoranti

di Michelangelo Russo

Il Fatto Quotidiano del 28 maggio u.s. ha pubblicato un articolo sul “flop” dell’ultimo concorso per magistrati da poco terminato. Bandito per 310 posti, ha visto ammessi all’orale solo 220 candidati, quasi cento posti in meno. E a consegnare i due scritti della prova erano stati in quasi quattromila. Sconcerto, come da diversi anni ormai, dei commissari addetti alla correzione, rassegnati all’ignoranza diffusa dell’uso dell’italiano e all’incapacità di argomentazione autonoma e ragionata dei quesiti giuridici. Compiti scritti come fatti in serie, seguendo copioni e schemi imparati a memoria. Nessuna libertà espositiva frutto di capacità singola di ragionamento ed elaborazione. Una preoccupante assenza di capacità di linguaggio professionale che riflette un apprendimento nozionistico mnemonico non riversato in una pratica scritta di sintesi delle nozioni e di applicazione ai casi del mondo reale delle nozioni apprese oralmente.

Colpa dei computers, certo. Colpa di Università permissive e gettonate per facilità degli esami, certo. Ma colpa, direi, anche del basso livello di cultura generale dei nostri giovani laureati. Quando affrontano il concorso in magistratura, la maggior parte dei concorrenti sa a memoria un’infinità di massime della Cassazione e tanta giurisprudenza. Quando feci io il concorso, nel 1971, si e no ricordavo dieci sentenze. Ma avevo letto per lo meno dieci volte di più dei candidati odierni libri di ogni genere, oltre quelli di diritto. Il bagaglio selettivo di apprendimento del linguaggio iniziava, ferocemente, già alle scuole medie. Sapere che il compagno di banco aveva letto “I Ragazzi della Via Pal” portava ognuno ad emularlo. E così la capacità di linguaggio orale cresceva di pari passo alla capacità espositiva scritta, perché le modulazioni dell’espressione scritta, e del discorso concluso, mutuavano forme e contenuto dal frasario dei grandi scrittori. Se oggi scrivo in un certo modo, è perché la logica armoniosa del ragionamento giuridico non l’ho appresa solo dalle sentenze (non sempre facili da digerirsi) della Cassazione, o dal conciso meccanismo deduttivo dei manuali di diritto (più simili come frasario ad un teorema matematico); l’ho appresa da Salgari, da Andersen, da Sienkiewicz (Quo Vadis, 1894, polacco), da Swift (Viaggi di Gulliver) e Defoe (Robinson Crusoe), inglesi, come Jerome K Jerome (Tre uomini in barca), e Charles Dickens (Oliver Twist, Canto di Natale); dagli americani, come Mark Twain (Tom Sawyer) e Herman Melville (La Balena Bianca); dai francesi classici, come Francois Rabelais (Gargantua e Pantagruel, 1534) e Victor Hugo (I Miserabili), tutti libri che almeno i due terzi della mia scolaresca, prima di passare dal ginnasio al liceo, aveva letto o almeno sfogliato; al liceo si passava ai libri importanti e agli autori difficili, come Sartre, Verga, Gogol, Tolstoj. La drammaturgia e la saggistica accompagnavano poi quotidianamente le letture del tempo libero all’Università. Inconsciamente, quando scrivevo e scrivo tutt’oggi, io cerco di imitare il lessico e il ritmo narrativo dei grandi che ho assorbito lentamente, come una medicina quotidiana, attraverso la lettura. I giovani magistrati delle ultime generazioni, non per colpa loro ma per colpa dei tempi, hanno sintetizzato i testi dei grandi scrittori nel tempo breve della visione dei film tratti dai loro libri, o dei videogiochi. Perfino Omero ha un video che narra la guerra di Troia, per cui il bambino che un giorno farà il concorso in magistratura risponderà esattamente al quiz digitale a cui sarà ridotta la selezione dei candidati. Ma non avrà letto un rigo di Omero. E’ ovvio che questa sterilizzazione del meccanismo evolutivo e sperimentale del pensiero si risolva poi in una incapacità di estendere motivazioni giuridiche valide. E c’è da dire che l’inaridimento della logica deduttiva trova un supporto inquietante nell’utilizzo del sistema probatorio. Anziché il ragionamento sui documenti, sulla conoscenza del diritto civile, societario, amministrativo, viene utilizzata l’arma esagerata dei trojan e delle microspie fuori dai casi di mafia e terrorismo (in cui sono indispensabili) per una inconfessata ricerca della via breve nel processo penale. Che è fatto, nella tradizione del pensiero giuridico, di apprendimento e di intuizione. Cioè di pura e semplice “intelligenza”. L’approssimazione culturale degli ultimi anni è purtroppo contagiosa. Tende ad inquinare, cioè, diffondendosi, strati sempre più larghi della giurisdizione, arrivando ad annullare cognizioni date per scontato dalla mia generazione. Ho visto di recente provvedimenti giudiziari che paiono ignorare del tutto le basi di reati fondamentali nella vita economica della società, come il falso notarile e l’assegno di conto corrente, il primo ritenuto quasi un reato impossibile, e il secondo ritenuto perfettamente girabile a un terzo, nonostante la macroscopica violazione delle norme antiriciclaggio. E parliamo non di un singolo assegno, ma di centinaia di essi e per molti milioni di euro. Insisto. Anziché quiz o prove sintetiche, il concorso in Magistratura richiede con urgenza una prova preselettiva di cultura generale. Per sapere anche se il candidato sa distinguere Picasso da Raffaello Sanzio.

Michelangelo Russo