Canone di scrittrici e di scrittori
Di Federico Sanguineti
Se fossimo mosse o mossi da curiosità, e non indotte o indotti a divenire scolasticamente acquiescenti di fronte a ciò che, in ogni Storia della letteratura italiana, da Francesco De Sanctis a oggi, viene a imporsi come tradizione portatrice di presunti valori universali (nei fatti di ideologia maschilista borghese), spontanea sorgerebbe la domanda: che cosa accomuna coloro che, in vario modo e misura, sono considerati canonici o almeno celebrati come “classici”? Non sarebbe difficile scoprire che sono accostabili per il fatto di rispecchiare, con maggiore o minore consapevolezza, situazioni di crisi politico-sociale epocale (al punto da coinvolgerci ancora oggi); e, al tempo stesso, sono stati e sono tuttora, almeno fino a un certo punto, sottoposti a censura più o meno persistente. Si pensi a Dante, la cui opera ‒ non a caso l’unica della letteratura italiana a essere inserita da Harold Bloom nel Canone occidentale [The Western Canon] (1994) ‒ esprime il disagio di un intellettuale di piccola nobiltà decaduta di fronte al sorgere, per la prima volta nella storia, del modo di produzione capitalistico, a causa del quale egli si trova sconfitto e, privato di ogni proprietà (feudale o borghese), nella condizione di scrivere un capolavoro in cui: 1) nell’inferno condanna la nascente società borghese; 2) nel purgatorio prefigura una società in transizione; 3) nel paradiso prefigura un mondo dove la proprietà privata è abolita. Per quanto riguarda la censura nei confronti del sommo Poeta, si consideri, nel corso dei secoli, la sua varia sfortuna: la perdita degli autografi; la riprovazione “umanistica” a cominciare da Petrarca; la cancellazione di singole parole, versi e terzine nella tradizione manoscritta; la scarsità di edizioni a stampa nel Seicento; il rifiuto della “struttura” in nome della “poesia” da parte della critica borghese novecentesca, ecc.). Analogo discorso si imporrà per testi di importanza se non universale, almeno europea o nazionale, a cominciare dal Decameron di Giovanni Boccaccio e dal Canzoniere di Francesco Petrarca, giungendo, poniamo, fino al ciclo di romanzi di Nane Oca di Giuliano Scabia. Ma le caratteristiche di ogni classico, vale a dire di rispondere a una crisi epocale e di subire significative censure, sono presenti, persino in maggiore misura, in opere che il maschilismo borghese ha escluso ed esclude dal canone. Si allude a un capolavoro come il cosiddetto Libro della regina di una scrittrice tanto presente nella Storia della letteratura italiana di Girolamo Tiraboschi, quanto assente, un secolo dopo, in quella desanctisiana. In questo manoscritto (oggi Harley 4431), anticamente rilegato in un solo volume e dedicato per sorellanza a Isabella di Baviera (consorte di Carlo VI di Francia), si ha, per opera di una donna, Cristina da Pizzano ‒ in quanto risposta alla emarginazione della scrittura femminile da parte dell’allora nascente società borghese ‒, la prima raccolta integrale in vita di una produzione individuale (opera omnia). Ci vorranno secoli prima che in Europa uno scrittore, Johann Wolfgang von Goethe, dimostri a sua volta siffatta consapevolezza del proprio ruolo di creatore. Finalmente in nome del restauro di verità storiche (a chiunque accessibili, perché documentate in rete), dal canone letterario non sono più espungibili scrittrici che, in barba a Tiraboschi, De Sanctis ha, per viltà borghese, cancellato, sicché la storia della letteratura non può in Italia che coprire un arco che oggi va da Dante Alighieri fino a Rosaria Lo Russo, autrice essa stessa di una Comedia (1998).