50 anni fa le quattro giornate di Eboli - Le Cronache Campania
Campania Eboli

50 anni fa le quattro giornate di Eboli

50 anni fa le quattro giornate di Eboli

di Vito Leso

Nel maggio del 1974, l’Italia era in piena campagna referendaria per l’abrogazione del divorzio. Il Paese viveva la stagione del terrorismo: il magistrato Mario Sossi era da giorni nelle mani delle Brigate Rosse e il mese si concluse con la strage di piazza della Loggia, un attentato terroristico di matrice neofascista. Berlinguer aveva da poco teso la mano alla Dc nel tentativo di avviare il “Compromesso storico” per assicurare maggiore stabilità governativa nel pieno degli anni di piombo. In questo quadro sociopolitico, il 3 maggio a Eboli, in una quieta serata primaverile, nei pressi della centrale piazza della Repubblica, iniziarono dei subbugli che seguirono ad una notizia del telegiornale di una decisione del Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica (Cipe) che il complesso industriale della Fiat promesso/destinato a Eboli sarebbe stato realizzato altrove. In città si accese un moto di rabbia che si protraeva da lungo tempo. In precedenza, l’Aeritalia-Boing, azienda nata da una collaborazione tra Iri e Fiat allo scopo di produrre velivoli italiani, avrebbe dovuto costruire un complesso industriale nella Valle del Sele, occupando tremila addetti e impegnando 1500 miliardi di investimenti. A volere la localizzazione di Aeritalia a Eboli fu, più di tutti, Vincenzo Scarlato, deputato democristiano di lungo corso e sottosegretario in carica alle Partecipazioni statali. Tuttavia, agli inizi degli anni ’70, il Cipe rese pubblica la scelta di localizzare Aeritalia in provincia di Foggia con grande delusione di un’intera generazione di studenti che avevano scelto la specializzazione Aeronautica (primo corso in provincia di Salerno) presso l’Istituto Superiore Tecnico ebolitano. In sostituzione all’Aeritalia, il Governo promise l’insediamento di uno stabilimento Fiat nella Piana del Sele, con un investimento di ottanta miliardi, una produzione prevista di cinquecento vetture giornaliere e l’impiego di oltre tremila unità lavorative. Nel marzo 1973, in un discorso alla Fiera di Bari, Umberto Agnelli, presentando il programma di investimenti della Fiat, aveva confermato la decisione dell’azienda di costruire uno stabilimento nella piana del Sele. Il 21 maggio dello stesso anno, l’onorevole Flaminio Piccoli, presidente del gruppo parlamentare della Dc, intervenne ad una manifestazione presso il Super Cinema a Eboli confermando la notizia tanto attesa in città. Ancora una volta, però, l’entusiasmo degli Ebolitani fu di breve durata. Pochi mesi dopo, nel pieno della crisi petrolifera, iniziò a circolare la voce secondo cui la dirigenza della Fiat era prossima a sospendere gli investimenti programmati, compreso quello tanto atteso sul territorio ebolitano. Fu ancora l’onorevole Scarlato, preoccupato dell’aria di sfiducia che si stava diffondendo, a farsi portavoce delle istanze del territorio in un incontro con Carlo Donat-Cattin, ministro per gli Interventi straordinari nel Mezzogiorno, durante il quale fu ribadito l’impegno del governo affinché il complesso industriale della Fiat a Eboli sorgesse in tempi brevi. Tuttavia, nel marzo 1974, il passaggio dal IV al V governo Rumor presentò delle novità destinate a incidere sulla vicenda ebolitana: Scarlato fu escluso dalla compagine ministeriale mentre l’avellinese De Mita, potente esponente democristiano, fu confermato ministro dell’Industria e il cosentino Giacomo Mancini, importante dirigente socialista, fu nominato ministro per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno. Il Cipe, del quale entrambi erano membri autorevoli, il 5 aprile deliberò un finanziamento rilevante per l’avvio dei lavori relativi al V Centro siderurgico di Gioia Tauro e il 3 maggio assunse la decisione di localizzare il complesso della Fiat a Grottaminarda, in provincia di Avellino. Appresa la notizia, un gruppo di ebolitani si riunirono nella piazza centrale e presero a braccio un palco, pronto per i comizi previsti per il referendum sul divorzio, utilizzandolo per bloccare l’autostrada Salerno-Reggio Calabria. Fu poi ostruito il traffico su ferro presso la stazione ferroviaria e quello su gomma lungo la Via delle Calabrie. Per quattro giorni, la città fu inaccessibile e l’Italia divisa in due, con il blocco del traffico autostradale e ferroviario. “Agnelli non si è fermato a Eboli” pubblicheranno i quotidiani nazionali dell’epoca. Ad eccezione di alcuni episodi che rischiarono di renderla ingovernabile, la protesta fu pacifica e proseguì fino all’8 maggio, in occasione dello sciopero provinciale con la presenza a Eboli di oltre ventimila persone, delegazioni sindacali di operai giunte da diverse zone della Regione e di tutti i rappresentanti locali dei partiti guidati dall’allora Sindaco Isaia Bonavoglia che riuscirono ad incanalare la protesta sul versante democratico e non violento. Lo stabilimento Fiat fu poi effettivamente insediato nell’Avellinese ed è tutt’ora attivo: fu una promessa di sviluppo industriale reale, non mantenuta nella piana del Sele. Le rivolte di Avola, Battipaglia e Reggio Calabria furono il prodomo di una protesta diffusa nel Meridione dalla fine degli anni ’60 e che ebbe in Eboli l’ultimo capitolo. Nei decenni successivi, “Le quattro giornate di Eboli” sono state analizzate da storici e studiosi, come Alfonso Conte, docente di Storia contemporanea all’Università degli Studi di Salerno, che ha inquadrato la vicenda in maniera dettagliata nella sua pubblicazione “La rivolta popolare di Eboli. 4-8 maggio 1974” (Plectica Editrice, 2014). Prof. Conte, la rivolta esplosa nel maggio 1974 a Eboli fu il risultato di moti popolari di protesta al Sud che, seppur per motivazioni differenti, avevano un comune denominatore: il diritto al lavoro ed a condizioni salariali eque. Come cambiarono gli equilibri politici e quanto hanno inciso nel Paese quelle vicende nei decenni successivi? I principali quotidiani ed esponenti politici parlarono di jacquerie, cioè delle proteste dei contadini del Medioevo, di fiammate rabbiose senza progetto e visione d’insieme, quasi a ulteriore conferma dell’arretratezza anche culturale che si attribuiva ai meridionali. I manuali di storia successivi hanno ripreso quei giudizi, dedicando pochi cenni a quello che da molti viene considerato “un ’68 di serie b”. Probabilmente furono invece segnali significativi della crisi della “repubblica dei partiti” che d’allora in poi si manifesterà sempre più chiaramente, della fine del “trentennio glorioso” collegato al sorgere e consolidarsi della società opulenta. Nel suo libro parla di fallimento della cosiddetta “Politica di piano”, un indirizzo programmatico che designava per il Mezzogiorno poli di sviluppo industriali. In realtà prevalse una strategia di clientelismo di massa volta al consolidamento del consenso e rafforzamento del potere politico sui territori attraverso un drenaggio di risorse pubbliche. A cinquant’anni di distanza, cos’è cambiato nel Mezzogiorno? Di “politica di piano”, che ben interpretata negli anni ’50 e ’60 aveva contribuito alla crescita del Paese, da tempo non parla più nessuno. Mentre è rimasta la lotta tra politici per intercettare risorse pubbliche a beneficio dei territori di appartenenza, che di certo costituisce una dimensione importante nell’attività dei rappresentanti del popolo, ma che se non è rigorosamente collegata agli interessi generali genera da un lato sprechi e dall’altro risultati solo in termini di rafforzamento del sistema clientelare. E quest’ultimo, soprattutto al Sud, non è mai in crisi! Si sta discutendo molto sulla legge che introduce nel nostro ordinamento l’autonomia differenziata che rischia di trasformare il Regionalismo, un principio presente nella nostra Costituzione, da solidale a competitivo e di allargare la forbice tra nord e sud, penalizzando le aree del Paese in maggiore difficoltà. Dopo essere scomparsa dall’agenda politica, si tornerà a discutere di Questione Meridionale e con quali sviluppi? Penso che di autonomia differenziata si sia iniziato a parlare da poco con colpevole ritardo, quando il processo è ormai avviato e difficile da fermare. Inutile pensare adesso alle responsabilità e alle ambiguità di chi dovesse opporsi con forza qualche anno fa e non lo ha fatto. Il Mezzogiorno paga, e probabilmente continuerà a pagare, una marginalità complessiva crescente, aggravata da una classe politica, trasversalmente intesa, più incline al cabaret che all’analisi e risoluzione dei problemi. Proprio ieri, al campus di Fisciano, è intervenuto al convegno “Io resto qui” in cui si è discusso di un nuovo modello di impresa giovanile al Sud. A riguardo, gli ultimi dati Svimez sono emblematici: dal 2022, su 63mila giovani emigrati, il 42% è laureato. Una perdita culturale ed economica inestimabile, in gran parte dovuta alla mancanza di opportunità e offerte di lavoro qualificato. Quali prospettive per i nipoti di quegli operai che mezzo secolo fa lottarono per rivendicare condizioni di lavoro e di vita migliori? Purtroppo, anche le università meridionali stanno da qualche anno soffrendo l’emigrazione giovanile fin dalla scelta dei corsi magistrali, con la conseguenza che anche strutture didattiche di buona qualità rischiano di restare senza studenti. Legittimamente i giovani si spostano lì dove sono maggiori e più gratificanti le opportunità di inserimento nel mondo del lavoro. In questa situazione drammatica, si deve provare a rafforzare la rete che collega mondo della formazione e attori locali dello sviluppo, per valorizzare le risorse esistenti, per offrire maggiori possibilità ai giovani che scelgono di restare al Sud.