Sindaci e giunte ormai non più percepiti. Assedio a Costituzione - Le Cronache
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Sindaci e giunte ormai non più percepiti. Assedio a Costituzione

Sindaci e giunte ormai non più percepiti. Assedio a Costituzione

di Aldo Primicerio

Sulla Costituzione sotto attacco, con la prima vera decisione autoritaria del governo Meloni, ci fermeremo nella parte finale. Ora apriamo con il voto.  Sapete quanto ci è costata la due giorni elettorale del 14 e 15 maggio? Oltre 15 milioni di euro. Sono 29 miliardi delle vecchie lire, giusto per tenere sempre vivo il confronto che a molti piace assai ancora oggi. La legge dice che bisogna votare dalle 7 alle 23 della domenica. Ma il governo Meloni non si fida dell’assenteismo italiano e decide di derogare, estendendo al giorno successivo le operazioni di voto. Con quale risultato? Che il lunedì vale meno di una tachipirina contro la febbre. Siamo sempre più disaffezionati dalla politica, con una percezione sempre più esigua del ruolo e della forza dei sindaci e delle giunta comunali, del loro potere di cambiarci la vita. E non si è molto lontani dalla realtà se si pensa che un sindaco e la sua giunta non sono in grado di dare un’identità precisa e vera ad una città come Salerno, sempre nel limbo tra quella turistica, per cui non è attrezzata, e quella logistica e di servizi. Che però tradisce le attese quando viene abbandonata nel caos del solito demenziale sistema stradale in occasione del Giro d’Italia e dei festeggiamenti per la Salernitana. Ma ci sono anche i piccoli esempi, apparentemente banali. Quello in cui sindaco, giunta e polizia municipale non sono in grado di far rispettare la legge ad una radio locale che in pieno centro cittadino, tra corso V. Emanuele e via SS. Martiri, vìola clamorosamente per 17 ore al giorno tutte le norme sulla pubblicità e sull’inquinamento luminoso. Ne abbiamo già scritto. E lo faremo ancora, con il lungo elenco di infrazioni già denunciate (inutilmente) anche alla Procura. Ma si sa, oggi ci svegliamo dal torpore della routine e dall’anestesia dell’ignoranza solo davanti a quel raro grave delitto che rompe la normalità in una città in fondo tranquilla e sonnolenta. Dove anche l’imponente traffico di droga sulle panchine del lungomare ormai fa poca notizia.  

Dunque, tornando al voto, allungarlo di mezza giornata è stata un’illusione. Dai ’90 agli inizi dei 2000 si tenta di reintrodurre la deroga al lunedì. Poi il buon senso e la legge di stabilità del 2014 la eliminano definitivamente. E’ con la pandemia e con la paura degli assembramenti che si torna alla due giorni. Poi di nuovo marcia indietro e nel 2022 l’annus horribilis del 54% alle comunali di giugno ed il 64% alle politiche del 25 settembre. La soluzione? Per la Meloni si deve tornare alla due giorni elettorale. Parola d’ordine, spingere ed agevolare il più possibile il ritorno alla partecipazione dei cittadini. Nell’imminenza del voto la Lega profetizza che con il giorno in più la gente vada a votare più volentieri. Profezia sbagliata, perché alle fine alle urne va il 59% degli aventi diritto, solo 5 punti in più del 54% dell’anno prima, ma con una sola giornata di voto.

Insomma cosa accade? Perché il voto cala sempre di più? Non è solo la disaffezione o il ruolo sempre più residuale dei sindaci e delle giunte comunali, dedite più a litigare con le opposizioni che a migliorare le città. C’è da fare i conti anche con il numero dei Comuni. Più alto è, più forte è il peso che la politica dà alla visibilità della tornata elettorale. E poi, come dicevamo, c’è da fare i conti con la percezione della scarsa importanza dell’appuntamento. Soverchiati dallo spazio che i media riservano ai leader nazionali, i cittadini sentono che un sindaco oggi può fare poco o niente. E poi mettiamoci dentro anche la pletora smisurata delle liste civiche, e la confusione generata da chi sfida un avversario della sua stessa area politica. Insomma sembra che la politica non abbia più identità, non sia più riconoscibile. E tutto questo, assieme a tutto il resto, genera disaffezione, crollo della voglia dell’urna, e quindi astensione. E ad assorbire l’attenzione c’è anche il tam tam sulle riforme costituzionali, su cui il governo di centrodestra punta per alcuni (insidiosi) cambiamenti strutturali nella gestione politica del Paese.

Il presidenzialismo ad esempio, assai caro alla Meloni ma anche a Salvini ed a Berlusconi. Ma qui noi cittadini diamo l’impressione di non essere molto disponibili. Negli ultimi 10 anni, dal 2013 al 2023, i favorevoli ad una forma di repubblica presidenziale sono scesi forte, 17 punti, dal 59 al 42 per cento, mentre si sono impennati gli sfavorevoli, dal 24 al 40 per cento. Sono le risposte degli italiani al recente sondaggio di di Swg. La politica dovrebbe leggerli bene prima di avventurarsi ai microfoni televisivi A rendere indigesto il presidenzialismo sono diversi fattori: l’eccessivo accentramento dei poteri in una sola persona, l’esagerata personalizzazione della politica, la convinzione che quella italiana non sia adatta ad una tale forma di governo che finirebbe con il minare il ruolo dei partiti e del Parlamento. Le ragioni opposte invece, cioè quelle dei favorevoli al presidenzialismo, sembrano però parimenti condivisibili. Il presidenzialismo permetterebbe infatti a noi elettori di scegliere direttamente il presidente, garantirebbe una migliore governabilità, consentirebbe decisioni rapide ed efficaci in situazioni di crisi, toglierebbe potere ai partiti. Insomma, una scelta non facile. Che però sembra dare più forza ai contrari, almeno per ora.

Molti più consensi ed aperture invece riscuote il premierato, l’elezione diretta del Presidente del Consiglio, come per i sindaci. Qui c’è molto più consenso, con più di 6 su 10 di noi. Che però cala quando si ragiona sul rafforzamento dei poteri del premier.

Insomma, quando c’è da decidere su qualcosa di strutturalmente importante, noi siamo molto più cauti dei politici. Il loro raggio d’azione è breve, va da due ad un massimo di cinque anni. In sostanza, quelli della poltrona e delle cospicue indennità. Noi invece vediamo molto più in là. Non abbiamo “indegnità” da rincorrere. Per noi, soprattutto i baby-boomers ed i Settantennials, contano di più i valori alti, quelli della Costituzione. Che oggi è a rischio. Non nel senso che possa essere abolita, ma perché ne viene eroso il valore del dettato, attraverso la quotidianità della vita politica ed anche attraverso norme che snaturano la concezione della democrazia. Ne è un esempio il primo vero atto autoritario del governo Meloni: un emendamento nel decreto legge sulla Pubblica Amministrazione. Qui cui riduce, fino quasi ad annullarlo, il controllo della Corte dei Conti sul Pnrr. E’stato lo stesso ministro Fitto a comunicarlo un una improvvisa e strana conferenza stampa.  A molti sarà sfuggita. Eppure si tratta di una decisione che sconvolge i ruoli della politica e della magistratura contabile. Ed ha spinto la Commissione Ue ad avvertire l’Italia che monitorerà gli effetti di una misura, che puzza un miglio di incostituzionalità, sul più importante organo di controllo sulla spesa pubblica. Non vogliamo precorrere i tempi. Ma questa decisione, come tutto questo gran vociare su presidenzialismo e premierato, convergono verso una forte sensazione:  che si voglia rafforzare il ruolo del governo, ridinensionando drasticamente quello delle assemblee elettive e degli organi di garanzia e di controllo, siano essi la Corte dei Conti o il Presidente della Repubblica.

E così come abbiamo scritto altre volte del coraggio della Meloni, della sua forte personalità e della grande simpatia che traspare dal suo romanesco parlare, così abbiamo il diritto-dovere di alzare l’attenzione su tutte quelle misure che insidiano sottilmente la democrazia. La Costituzione non si difende con le astrazioni della retorica ai microfoni o sulle righe di un giornale, ma facendone propri i motivi ispiratori, e facendola vivere nella pratica politica e civile di tutti i nostri giorni.