Tema. L’ecdotica dantesca. Svolgo. - Le Cronache
Editoriale

Tema. L’ecdotica dantesca. Svolgo.

Tema. L’ecdotica dantesca. Svolgo.

Di Federico Sanguineti

Premesso, come già chiarito da tempo, che l’edizione pubblicata nel 2001 dalla Fondazione Ezio Franceschini, Dantis Alagherii Comedia (Edizioni del Galluzzo), è da considerarsi inattendibile, non rimane che interrogarsi sul grado di economicità dello stemma codicum allora utilizzato. Si tratta, in altre parole, di verificare fino a che punto sia stata assolta l’esigenza, avanzata da Maas in Leitfehler und stemmatische Typen (1937), per cui, individuate le famiglie di una tradizione contaminata, occorre considerare come «rappresentante» (Vertreter) di ognuna solamente il testimone più antico. Così, nel caso del Laurenziano di Santa Croce (siglato LauSC), cioè del manoscritto principale dei quattro utilizzati da Karl Witte nella prima edizione critica moderna della Commedia (1862), è indubbio che, benché recenziore, sia il più arcaico esponente di un insieme costituito da codici recanti a Pg XIX 34 «Io mossi li occhi el buon uirgilio almen tre» (con la sola eccezione del lacunoso manoscritto Valenciennes 397, dove il verso manca): un insieme definito da Elisabetta Tonello nel 2018 «gruppo berlcaetsc», costituito dai codici Berlinese, Caetani, Fiorentino II I 42, Laurenziano 90 sup. 132, Laurenziano Palatino 72, London Additional 26771, Napoletano XIII C 3 e, infine, Valenciennes 397. Quindi, quanto alla coppia rappresentata da un perduto testo a penna databile fra l’ottobre 1330 e il gennaio 1331 (ma accessibile ancora nel 1548, anno in cui Luca Martini lo collaziona in una stampa del 1515 conservata ora alla Biblioteca Nazionale Braidense), e dal Trivulziano 1080 (i due costituiscono la famiglia nell’edizione di Giorgio Petrocchi del 1966-1967), è senz’altro il Trivulziano 1080 (siglato Triv) il testimone più antico di una tradizione contaminata fin nel perduto capostipite firmato da Forese (il quale ammette, stando a Martini, di procedere «respuendo que falsa et colligendo que vera»): ne fanno parte, ad esempio, il codice di Glasgow, il manoscritto 517 della Library of the Earl of Leicester conservato a Holkham Hall e l’italiano 49 di Manchester (concordi nel recare a Pg XIX 34 «Io mossi li occhi el buon maestro almen tre»). Inoltre, quanto all’Ashburnham 828 (siglato Ash), all’Hamilton 203 (siglato Ham) e al Riccardiano 1005 e Braidense AG XII 2 (siglati Rb), vale a dire la famiglia z, è senz’altro l’Ashburnham 828, datato 1335, il testimone più antico. Così, per l’ecdotica dantesca, a definire il subarchetipo α individuato da Mario Casella nel 1924 (e in seguito implementato da Petrocchi) sarà ormai sufficiente l’accordo di tre soli testimoni: LauSC Triv Ash. Quanto al subarchetipo β, costituito da due coppie di collaterali, Urbinate 366 (siglato Urb) e Urbinate 365 (siglato Urb. 365) da un lato, Florio ed Estense italiano 474 dall’altro, non rimane ‒ come chiarito da chi scrive nel 2007 ‒ che affidarsi a Urbinate e Florio. In breve ‒ tertium datur sia rispetto all’operato di chi si diverte, direbbe Giuseppe Billanovich, «solo nel gioco del pallottoliere di fare salire e scendere varianti tra il testo e l’apparato», come accade a Giorgio Inglese nel 2021, che rispetto a «nuove prospettive» consistenti nel sostituire a un dettato «secondo l’antica vulgata» una Commedia«secondo i testi settentrionali» (che è la proposta di Paolo Trovato del 2007) ‒ la restitutio textussarà finalmente garantita, nel modo più economico possibile, alla luce di non più di cinque testimoni: LauSC, Triv, Ash (= α); Urb, Florio (= β). Volo quinque verba sensu meo loqui.