Cava: Vincenzo Iozzino: “Mio fratello ucciso dalle Brigate Rosse nel rapimento Moro” - Le Cronache
Cronaca

Cava: Vincenzo Iozzino: “Mio fratello ucciso dalle Brigate Rosse nel rapimento Moro”

Cava: Vincenzo Iozzino: “Mio fratello ucciso dalle Brigate Rosse nel rapimento Moro”

16 marzo 1978, una data tragica nella storia del nostro paese. Nel 45°anniversario del rapimento dell’on.le Moro abbiamo incontrato a Cava dei Tirreni dove abita Vincenzo Iozzino, fratello di Raffaele Iozzino, l’unico degli uomini di scorta caduto con le armi in pugno nel vile agguato di via Fani per mano del commando brigatista dove fu “prelevato”(secondo la crudele, inumana terminologia dei terroristi) l’allora Presidente della Democrazia Cristiana.

Vincenzo, ci racconta di suo fratello Raffaele nei suoi ricordi di vita familiare?

Mio fratello era nato a Casola di Napoli il 2 gennaio 1952, terzogenito di cinque figli (io sono del 1958, l’ultimo, gli altri sono Ciro, Luigi e Liberata).I miei genitori erano contadini, a Casola negli anni settanta non c’era lavoro, perciò molti si arruolavano in polizia, che all’epoca costituiva una delle poche occasioni di occupazione, come per buona parte dei giovani meridionali. A dire il vero, dopo le medie Raffaele aveva scelto la scuola di progettistica navale che frequentava a Castellammare di Stabia, ma non continuò e poichè a Casola conoscevamo la famiglia di un cappellano militare, questi gli scrisse una lettera di presentazione per la polizia, che unita alla prestanza fisica ed alle doti di mio fratello, andò a buon fine, tanto che Raffaele fu assegnato alla scuola di polizia di Alessandria.Ricordo che all’epoca non avevamo il telefono a casa ed ero io a tenere la corrispondenza epistolare con lui, con la quale lo aggiornavo sulla situazione di casa e della famiglia.Dopo aver fatto il corso di addestramento, fu assegnato alla Questura di Milano dove fece esperienza con la dura, difficile realtà degli anni 70 milanesi, attraversati dalle contestazioni operaie e studentesche e dagli scontri tra le formazioni della destra e della sinistra, nel corso delle quali ebbe modo di conoscere anche l’agente Marino (morto per mano dei sanbabilini Loi e Murelli il 12 aprile del 1973, nda).

Dopo questo probante tirocinio fu addestrato come tiratore scelto in Sardegna, ad Abbasanta, dove il corso durò tre mesi e nelle lettere che scriveva mi aggiornava sul fatto che la selezione era molto dura e che sperava di essere preso, cosa che avvenne.

Una volta superata la selezione fu assegnato all’aeroporto di Fiumicino a Roma, dove rimase per breve tempo, per essere poi destinato al servizio di  scorta di Emilio Colombo, all’epoca Ministro del Tesoro (allora mi scriveva che era molto contento di poter prestare servizio in borghese, perché sentiva di avere meno costrizioni). Successivamente fu assegnato al servizio di scorta di Taviani e poi di Rumor ed infine passò a scortare Moro (il periodo più lungo, tre anni) con il quale si creò un bel rapporto, sia con lui che con la famiglia (della signora Nora Moro mi ricordava la forte determinazione ed anche la partecipazione alla stesura dei discorsi del marito).

Sig.Vincenzo, era questo il sogno di suo fratello? Ed i suoi genitori cosa ne pensavano della sua scelta?

Il suo sogno…diciamo che se fossimo nati non a Casola di Napoli ma nel nord Italia, la nostra vita sarebbe stata diversa; le basti pensare che mio fratello è andato via di casa a 19 anni, e che la durezza dell’addestramento dell’epoca gli impediva di poter tornare al proprio paese per mesi e mesi, in maniera molto penalizzante sia per lui che per la famiglia. In seguito, posso dire che si era appassionato al suo lavoro ed era orgoglioso di farlo, nonostante i grossi rischi che sapeva di correre, anche se nel periodo delle scorte a Roma i terroristi avevano mirato ad altri bersagli, ma non avevano ancora colpito i politici. Al riguardo, probabilmente Moro aveva sottovalutato i rischi, in quanto non riteneva di essere esposto in prima linea, non ricoprendo un incarico particolarmente “sensibile”.

Come avete saputo del tragico accaduto, e chi vi ha contattato?

Ricordo che quando accadde il rapimento di Moro, era il periodo pasquale (tanto è vero che l’agente Zizzi era al primo giorno di scorta perché sostituiva un collega). Abbiamo saputo dell’accaduto via radio: io stavo studiando, mio padre e mio fratello Ciro stavano lavorando nei campi, con la radio accesa, e d’improvviso si interruppero le trasmissioni e la radio diede la notizia. In quel momento abbiamo sperato che quel giorno Raffaele non fosse in servizio. Mio fratello trafelato si recò dai Carabinieri del posto, che gli dissero che non avevano ancora nessuna notizia ufficiale, ma nel pomeriggio vennero a darci la notizia a casa.

Lei aveva parlato con suo fratello prima del 16 marzo?

La domenica prima l’aveva passata a casa con noi a Casola e pensi che rimanemmo d’intesa, quando la sera andò via, che la domenica successiva saremmo andati a prenderlo alla stazione di Napoli, poi il giovedì ci fu l’agguato. (Tra le 9.02 e le 9.05 del 16 marzo 1978 si consuma il gravissimo fatto di sangue: la scorta dell’on.le Moro, composta dai carabinieri Maresciallo Leonardi caposcorta ed appuntato Ricci che erano nella 130 blu con Moro e dagli agenti di Polizia Zizzi, Rivera e Iozzino che seguivano sull’Alfetta bianca, sono annientati da una pioggia di fuoco: il solo Raffaele Iozzino, con prontezza e sprezzo del pericolo, riesce ad uscire dall’auto ed esplodere tre colpi contro i brigatisti, ma viene massacrato dai killer Bonisoli e Gallinari. Moro esce quasi illeso dalla sparatoria e viene “prelevato” e trasportato in maniera rocambolesca nel covo di via Montalcini, dove resterà per ben 55 giorni, prima di essere restituito cadavere in via Caetani, il 9 maggio, nda).

Successivamente all’agguato, qual è stato l’atteggiamento della gente comune e delle autorità nei vostri confronti?

La solidarietà nei nostri confronti è stata grandissima da parte della gente comune, abbiamo ricevuto moltissime lettere di scuole, studenti, di associazioni, tantissimi telegrammi di cordoglio. Dopo il rapimento di Moro le autorità ci interpellarono, chiedendo se i familiari delle vittime fossero d’accordo sulla trattativa con i rapitori (ipocrisia tutta italiana, se non proprio strumentale, rimettere una decisione che spettava a chi di dovere, scaricata su chi aveva subito un lutto di tal genere, nda). Devo dire che poco prima di morire Cossiga scrisse una lettera ai miei genitori (ed immagino anche alle altre famiglie) per chiedere loro  perdono per non aver saputo proteggere gli agenti caduti. Nel 1988 fummo convocati, a 10 anni di distanza, in Vaticano da Giovanni Paolo II, che celebrò in una cappella privata una messa per tutti i familiari delle vittime (al riguardo, mi piace ricordare che eravamo molto in affinità con la famiglia di Ricci, la cui moglie è morta di recente, di Zizzi e in particolare di Rivera, con i quali ci vedevamo agli incontri, ai quali solitamente partecipava il fratello). Voglio precisare che mio fratello, agente di polizia, raccontava di una ottima collaborazione che a quel tempo si era stabilita con i carabinieri in servizio. Inoltre, debbo aggiungere che lo Stato ci aggiornava durante i processi, nei quali ci siamo costituiti parte civile, assistiti da avvocati pagati dallo Stato.

Proprio con riferimento ai processi (addirittura si è arrivati al Moro Quinquies!,nda), lei vi ha assistito? E quale era l’atteggiamento in aula dei brigatisti?

Voglio premettere che a mio parere la legislazione premiale (legge 304/1982, nda) ha sconfitto il terrorismo percorrendo la strada del favorire la dissociazione, ma indubbiamente si è trattato di una dimostrazione di debolezza dello Stato, che è stato costretto a dover venire a compromesso con i terroristi. Per converso, quando seguivamo i processi, non abbiamo mai notato un sincero pentimento da parte dei brigatisti, anzi debbo dire (io ho seguito solo quattro o cinque udienze nei primi processi) che avevano anche un atteggiamento sprezzante, quasi di sfida. Ricordo inoltre che in un’udienza fummo interrogati per sapere se fossimo in possesso di ulteriori notizie, tipo se mio fratello aveva avuto il sentore di qualche attentato (al riguardo ricordo che la scorta era stata aumentata di numero ed era passata da tre a cinque agenti). Proprio riguardo alla scorta voglio far sapere che all’epoca la legge (il regolamento delle scorte, nda) prevedeva che gli agenti potessero portare solo le pistole addosso e che l’unico mitra che avevano doveva essere custodito nel bagagliaio dell’auto. In occasione dell’agguato solo mio fratello ebbe la prontezza di uscire dall’auto e di sparare tre colpi di pistola.

Successivamente i brigatisti avrebbero assunto un atteggiamento diverso, vero?

Si, infatti, nel 1994, se non ricordo male, incontrai Valerio Morucci a Roma, in piazza S.Pietro. Aveva una voce tremante, era in evidente difficoltà: quando mi vide lo notai a disagio, perché riconobbe in me il viso di mio fratello, che seppi aveva pedinato a lungo prima del 16 marzo, anche davanti alla Chiesa di S. Chiara in piazza dei Giochi Delfici, dove Moro era solito recarsi per pregare, ed anche davanti all’Università, dove Moro teneva lezione.

Vi deste la mano?

Ci demmo la mano.

Come avvenne l’incontro?

L’incontro avvenne tramite suor Teresilla, che faceva volontariato nelle carceri e aveva conosciuto i terroristi, divenendone confidente (al riguardo il sig. Iozzino ci informa che la religiosa è deceduta sull’Ardeatina qualche anno fa mentre in processione si recava al Divino Amore, investita da un’auto, nda). Ero emozionato, quando la suora ci presentò. Prima suor Teresilla mi aveva telefonato per sapere se volessi incontrarlo, dicendomi che Morucci aveva manifestato l’intenzione di conoscermi, nel suo percorso di rinnegamento della violenza, e di ciò, devo essere sincero, mi sentii sollevato. Restammo a parlare per circa mezz’ora: mi disse che non aveva sparato lui su mio fratello; disse inoltre che a quei tempi pensava di fare la cosa giusta e che era accecato dall’ideologia, ma che adesso soffriva molto per la presa di coscienza del male che aveva fatto.

Era tremolante: gli dissi che ero contento di questo suo rinsavimento e del fatto che la sua sofferenza interiore gli faceva vedere diversamente quanto fatto. E voglio che lo scriva: non mi sembrò recitare.

Lo incontrai nuovamente una decina di anni dopo, proprio ai funerali di suor Teresilla, ma lo vidi solo di sfuggita, e non lo fermai.

Incontrò anche la Faranda?

Sì, anche con la Faranda ho avuto un incontro, e sempre tramite suor Teresilla, a Castelgandolfo, ed in quella occasione la brigatista mi regalò una pianta da portare al cimitero sulla tomba di mio fratello. Al riguardo debbo dire che se Morucci mi apparve seriamente turbato nell’incontro che avemmo a Piazza S. Pietro, lei era invece più tranquilla e se devo essere sincero non mi sono emozionato come nell’incontro con Valerio Morucci.

Sicuramente il suo è stato un gesto magnanimo, di grande coraggio morale. Perché accettò di incontrarli?

Ho accettato di incontrarli perché personalmente volevo capire; di solito, quando un fatto del genere non ti tocca personalmente e lo vedi solo in televisione, non riesci a renderti conto: la mia è stata una scelta di fede. Ricordo che quando seppellii mio fratello mi sembrò l’ultimo giorno della mia vita, non riuscivo a vedere il domani ed invece grazie alla fede ho capito che l’uomo può cambiare. In quel periodo di estrema traumatizzazione, cercai rifugio nel Vangelo, e per me è stato un gran bene. Ebbi modo di incontrare anche i figli di Moro, in particolare Agnese e Giovanni: al riguardo mi è stato fatto notare che Moro nelle numerose lettere scritte (comprese quelle rinvenute nel covo di via Montenevoso a Milano dagli uomini di Dalla Chiesa e non spedite, nda) non cita mai la scorta, ma io penso che nello stato in cui si trovava era giustificabile, perché credo che la paura lo condizionasse. Dopo la morte di Moro, fummo richiesti di recarci presso gli studi della Rai di Napoli per rendere una testimonianza sull’uomo.

Lei ha fatto un gesto nobilissimo, ed anche coraggioso, nel volere incontrare i brigatisti, ma subito dopo la strage e la crudele uccisione di suo fratello, cosa avete pensato di loro?

Devo essere sincero: dopo l’accaduto abbiamo provato molta rabbia nei confronti dei terroristi, anche perché avevano soppresso uomini che provenivano dalle classi più umili della società, che dicevano che la loro ideologia avrebbe voluto riscattare (al riguardo è facile ed immediato il ricordo della famosa invettiva di Pier Paolo Pasolini nei confronti dei figli di papà che giocavano a fare i rivoluzionari, che rimase la voce unica a difesa del vero proletariato, che per Pasolini era rappresentato proprio dai poliziotti, nda), anche se a loro dire li hanno colpiti per la funzione che svolgevano (“abbiamo annientato le teste di cuoio di Cossiga”, scrissero i brigatisti nel primo comunicato, rivendicandone la paternità, nda).

Intendiamoci: per la gravità degli atti compiuti, per loro non c’è nessuna giustificazione: ma io credo che se annientiamo la nostra coscienza diventiamo dei mostri, ed allora dobbiamo evitarlo. La buonanima di mio padre invece la pensava diversamente, era stato a combattere nell’ultima guerra in Africa del Nord ed avrebbe voluto per loro la pena di morte.

Io invece condivido la scelta dello Stato di favorire con sconti di pena la dissociazione, perché sono stati evitati altri lutti, anche se penso comunque che la stragrande maggioranza dei terroristi dissociati o collaboratori attivi, come vogliamo chiamarli, siano stati opportunisti ed all’inizio sicuramente lo furono anche la Faranda e Morucci.

Per concludere, sig. Iozzino, che ricordo le resta di suo fratello Raffaele? 

Guardi, le dico questo: aveva quasi sei anni più di me, che ero il più piccolo, e per questo bel rapporto che avevamo mi sosteneva negli studi di ragioneria, veniva anche a parlare con i miei insegnanti ed era il mio punto di riferimento umano, sia dal punto di vista pratico che di vicinanza interiore. Come le dicevo il percorso di fede può dare coraggio ed anche se la vita me lo aveva strappato per mani assassine in modo così brutale, quando facemmo la lapide, volli metterci questa frase di Gesù, pronunciata sulla croce: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno”.

Riguardo a mio fratello, il fatto che sia morto con le armi in pugno, da coraggioso, mi rende orgoglioso di lui, ma devo essere sincero, non è questo che mi interessa. Io sono contro la violenza e spero che questi fatti non si ripetano, raccomando infatti sempre ai giovani di allontanarsi dalle tentazioni della violenza. Quello che mi interessa veramente è che se questo sacrificio suscita una repulsione alla violenza nei giovani, allora Raffaele non è morto invano.

Quali erano le prospettive per il futuro di suo fratello?

Il suo obiettivo era quello che quando tra un anno sarebbe scaduto il mandato di Leone, e Moro sarebbe divenuto Presidente della Repubblica, lo avrebbe seguito ed avrebbe potuto fare un lavoro migliore. Mi auguro che il Signore lo possa ricompensare in un altro mondo, in altro modo.

Un’ultimissima considerazione: che idea si è fatta della vicenda Moro?

La mia idea sulla vicenda Moro, riveduta nelle sue sfaccettature, è non che i terroristi fossero manipolati, ma che in ogni caso non sia stato fatto tutto per liberarlo.

Francesco Cuoco