Mezzogiorno di fuoco, ne’ “Il brigante e il generale” - Le Cronache
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Mezzogiorno di fuoco, ne’ “Il brigante e il generale”

Mezzogiorno di fuoco, ne’ “Il brigante e il generale”


Per i tipi di Editori Laterza l’ultima opera di Carmine Pinto fa da spin-off al pluripremiato “La guerra per il Mezzogiorno”

Di Alfonso Mauro

«Il lascito del banditismo era vincolato a mentalità tradizionali indisponibili a offrire strumenti di lotta sociale… e la rappresentazione leggendaria del Brigantaggio è frutto di miti e invenzioni pubblicistiche recenti».
Volessimo ricondurre le trame del nostro scrivere-avendo-letto ad un registro linguistico caro a una tessitura pop, non esiteremmo a dire che siamo davanti a un caso raro di sequel, o spin-off, migliore del precedente — e che precedente! pluripremiato e presentato in tre quarti d’Italia a un pubblico sempre affamato di Storia… se non maliziosamente avido degli acerrimi dibattiti che il tema, il Brigantaggio, sa ancora rimestare. (Ma, per lo storico, non c’è dibattito se non quello tolto all’attento compendio delle fonti.) Il precedente era “La guerra per il Mezzogiorno”, l’attuale, edito anch’esso Laterza, è “Il brigante e il generale. La guerra di Carmine Crocco e Emilio Pallavicini di Priola” già in terza ristampa a poche settimane dall’uscita, 270 pagine di Storia d’Italia raccontata a metà tra il nerbo della disciplina accademica e il fluire della Narrativa: le vite parallele di due protagonisti della Guerra al Brigantaggio: l’aristocratico di spada, militare moderno dello Stato pre- e post-unitario, con qualche guasconeggiamento al gioco e alle donne; e l’astuto, violento erede del mondo feudale in guerriglia, smaliziato portatore di cazzimma e assassinio. Autore il prof. Carmine Pinto, direttore del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Salerno e già direttore dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano. Una divulgazione, la sua, grata sia all’ascolto che alla lettura.
Felice l’impianto narrativo, innesto tra quasi-romanzo-storico, saggistica folta di note a piè pagina, e sorta di punteggiata guida dei luoghi letti dall’autore cui essi sono noti; una discorsività godibilissima (e qualche espediente, es. analessi e prolessi), forse cogliente di sorpresa un certo lettor macinatore di saggistica, ma certo improntata a una vis divulgativa che intenda ampliare il bacino d’utenza già sollecitato dall’infaticabile marcia di presentazioni nazionali. Ma qualche fiorire letterario è indovinatamente funzionale alla caratterizzazione dei due protagonisti accompagnati narrativamente alla Sfida all’O.K. Corral all’italiana; due vite parallele, entrambe nel segno di una dicotomia tra vicenda umana, tangibile nel grigio del confine tra luci ed ombre (routine militare e “scapigliata” vita privata l’uno; il carcere, la “voglia di sistemarsi”, e il crimine l’altro), e vicenda romantico-politica: l’orizzonte sociale ed europeo dell’operato dell’ “ufficiale gentiluomo”; e il rocambolesco, il picaresco del feroce, intelligente brigante ammaliatore nondimeno. Codice e teppa, guerra di caserma e guerriglia; la macchina statale, e le trame sguinzagliate di una vecchia nobiltà fondiaria. Un “western”, multiforme e unico nel suo genere, dalla natura narrativa ibrida che se, da un lato, inciampa (si parva licet) in alcuni momenti d’intreccio poco efficaci in cui la sapiente chiave contenutistica, pur entrando nella toppa della materia, non gira che nervosa, dall’altro, cala però numerosi sguardi particolareggiati che permettono meglio governare la fabula — massime se paragonata alla febbrile, chirurgica, vertiginosa gran machina storiografica de “La guerra per il Mezzogiorno”… quella un prontuario puntualissimo, spigoloso, enciclopedico, questa una rotonda monografia accattivante. Di acuminato interesse le pagine che indagano una questione anch’essa speculare: la (antistorica) fortuna mediatica postuma goduta dai briganti e, già durante gli anni di prigionia, dal loro generalissimo Crocco; e l’estromissione dagli onori della narrazione risorgimentale e della Guerra al Brigantaggio e del principale artefice Pallavicini — con la mancante presa nella edificanda memoria collettiva odierna che dovrebbe invece esercitare il capolavoro del Liberalismo ottocentesco: la costruzione di uno stato nazionale parlamentare a scapito delle forze d’antico regime e di Restaurazione. Giustamente inappellabile il giudizio del nostro storico: l’azione criminale di Crocco fu di larga portata, astuta, ma incapace di e indisponibile a saldarsi alle aspirazioni sociali e agrarie del Meridione; essa si collocò anzi pienamente nel solco della Restaurazione e in ossequio alla feudalità legittimista. Furti, rapimenti, mutilazioni orrende e carneficine, stupri di gruppo, appoggio popolare costantemente calante — queste le caratteristiche restituite del Brigantaggio dall’alveo pienissimo delle fonti guadato dal professore con serietà scientifica e intervallata da un interessante apporto fotografico d’epoca; dall’altro lato invece la guerra che sa farsi opportunità politica (Crimea) e che deve saper calarsi, reinventandosi, in nuovi contesti e istituire un rapporto efficace con l’attività parlamentare. Al margine, l’invenzione pubblicistica recente che appaia briganti e partigiani, e che non solo è una turpe fandonia ma è offensiva della memoria della Resistenza. Terza protagonista è la guerra ottocentesca, con le sue permutazioni di campo e generazionali, e colta nella non semplice cornice politica e di una cultura militarista i cui dettami pare dalla lettura percepire Pallavicini seppe piegare al suo spirito e al suo fine; forse alcuni di tali “a mali estremi estremi rimedi”, nonché la meno gloriosa, rispetto alla guerra di liberazione, temperie di conflitto sociale o quasi, sono da ascriversi tra i motivi del ridimensionamento propagandistico postumo dell’agone di Crocco e Pallavicini, e dello Stato vittorioso contro il crimine e i progetti reazionari inizialmente sul libro paga dell’esiliato e sempre più misero e solo Francesco II. Dunque ben venga il libro, e l’incessante discorso tra e con gli accademici. Ben venga questo “affresco” alla Giovanni Fattori, come il quadro in copertina, dove si muove un esercito di altri personaggi, dal Garibaldi ferito in Aspromonte proprio da Pallavicini, ai nomi illustri mai fatti dal brigante incarcerato, ai suoi compari grandi e piccoli. Non si può che provar gratitudine per chi si fa interprete attivo della Scienza Storica, magari attraverso pagine rimarchevoli e accattivanti, nonché sonoro, icastico divulgatore, massime quando le narrazioni storiche vengono come ora tòrte, piegate ad agende politiche che fanno strame del diritto internazionale e dalla vita umana — fenomeno circa il quale il professore è parimenti esplicito e inflessibile.