Impeto e tempesta sulle note di Schumann e Čajkovskij - Le Cronache
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Impeto e tempesta sulle note di Schumann e Čajkovskij

Impeto e tempesta sulle note di Schumann e Čajkovskij

di Luca Gaeta

“Una sinfonia deve essere come il mondo. Deve contenere tutto”. Con queste parole Gustav Mahler definiva il genere sinfonico. Definizione che condensa lo stile compositivo mahleriano, ma che è possibile estendere a tutti i grandi capolavori del repertorio sinfonico. La musica, soprattutto quella sinfonica, non descrive mai, non definisce mai i confini che l’immaginazione, la sensibilità e il vissuto di ognuno di noi è capace di percepire. Per assurdo, anche quando l’intento della composizione è di carattere “descrittivo”, esso non “delimita”, ma ispira. Sabato scorso, sul Belvedere di Villa Rufolo si è esibita la Slovenian Philharmonic Orchestra diretta da Christoph Eschenbach. Il primo brano in programma è stato l’Adagio del compositore sloveno Anton Lajovic, seguito dal Concerto in La minore di Robert Schumann Op.129, originariamente concepito per violoncello e orchestra, ma in questo caso trascritto per violino, eseguito da Gidon Kremer. L’intera esecuzione è stata messa a dura prova dal vanto che più volte ha divelto qualche leggio. Lo stesso solista ha rischiato di “perdere” lo spartito, prontamente supportato da qualche orchestrale e finanche dal direttore. La trascrizione del concerto di Schumann, concepita per violoncello, non convince rispetto alla partitura originaria. Il lirismo del primo tema, non giova della sonorità densa e suadente tipica del violoncello, mentre gli interventi di natura virtuosistica risultano meno “eroici”. Bis in omaggio al popolo Ucraino da parte di Kremer, che interpreta una composizione per violino solo. Dopo la breve pausa, l’esecuzione della Quinta Sinfonia di Pëtr Il’ič Čajkovskij Op.64. La Quinta Sinfonia, con la Quarta e la Sesta, detta “Patetica”, mettono in mostra il grande talento del compositore russo nell’orchestrazione. In una lettera alla sua grande amica e confidente Nadezhda Von Meck, lo stesso compositore si lascia ad una spietata ed ingiusta autocritica: “…mi sono convinto che essa (la Quinta Sinfonia) è mal riuscita. Vi è in quest’opera qualcosa di sgradevole, una certa diversità di colori, una certa insincerità, un certo artificio…”. Il compositore fa riferimento alla diversità di colori, apostrofandoli come un limite, mentre ad oggi costituiscono il fascino di questa tormentata composizione, in cui è possibile ritrovare tutti gli stati d’animo altalenanti che la Quinta Sinfonia esprime, varietà che a sua volta riflette la personalità tortuosa e instabile del suo compositore. Per quanto la nota dominante sia la malinconia, lo stesso tema che apre la sinfonia per poi costituirne il leit-motiv, può apparire sotto forma di una voce da oltretomba, esalata dal registro più cupo e spettrale immaginabile per un clarinetto all’inizio del primo movimento, ma anche sotto forma di una nervosa e decisa marcia verso il proprio destino, scandita da una fanfara di ottoni nell’ultimo movimento. Come detto in precedenza, il vento ha costituito un forte limite per l’intera esecuzione, mettendo in discussione alcuni aspetti tecnici. Ciononostante le sonorità degli archi sono risultate sempre morbide e attente ai colori. I legni non convincono del tutto, eccezione fatta per il primo clarinetto. Mentre la “scollatura” più evidente si è avvertita negli ottoni, fra trombe e tuba. Molto bene il timpanista, sempre sul gesto del direttore e con sonorità corrette. Il Festival di Ravello, che quest’anno festeggia i suoi primi settant’anni, offre la particolarità di un’esperienza sensoriale unica nel suo genere: sospesi fra cielo e terra, nel vento che soffia, o nel placido riflesso della luna che si specchia in acqua. Gli scenari suggestivi, i panorami mozzafiato, le tinte calde di tramonti da favola, in cui sempre più spesso si collocano i festival, le rassegne di musica, se da un lato offrono un volano alla musica definita popolarmente classica, dall’altro tradiscono l’essenza della musica stessa, “assoluta”, ridimensionando “l’eternità” dell’opera d’arte in confini già precostituiti. Le “teorie estetiche” vengono ulteriormente messe in discussione se ci si rapporta ai fattori tecnici che ogni esecuzione presenta. Dove il favore o l’avversione di agenti atmosferici possono indirizzare e a volte compromettere la buona riuscita di un’esecuzione. Da cui il motto toscaniniano “all’aperto si gioca a bocce”.