La tavolozza sconfinata di Valery Gergiev - Le Cronache
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La tavolozza sconfinata di Valery Gergiev

La tavolozza sconfinata di Valery Gergiev

Secondo appuntamento questa sera, alle ore 20, con lo Czar e la sua Mariiinskij Orchestra per il Prokofiev di Romeo e Giulietta e la “Grande” di Schubert

Di Olga Chieffi

Secondo appuntamento del Ravello Festival, con Valery Gergiev e la sua Mariinskij Orchestra, un binomio che ha festeggiato quest’anno le nozze d’argento, acclamato in tutto il mondo. Una magia che si rinnoverà sulle pagine della suite del Romeo e Giulietta di Sergej Prokofiev e della Sinfonia n°9 di Franz Schubert. Una sola parola può essere sufficiente a descrivere la partitura shakespeareana del genio russo: poesia. L’opera, infatti, è interamente soffusa di “meravigliosi” “Leitmotive”, ora dolcissimi, ora malinconici, ora tragici, ora drammatici, che delineano la psicologia e l’indole dei personaggi con mirabile precisione, attraverso un nuovo tipo di cantabile, limpido, romantico, nostalgico. La scelta dei pezzi e l’adattamento per renderli brani sinfonici autonomi rivelano che Prokofiev intendeva riaffermare l’indipendenza della musica come linguaggio. Nonostante questo, tutte le sue pagine contengono una plasticità tale, un ritmo e una gestualità così evidenti, che sembrano “scolpite” per il balletto. Balletto o suite orchestrale che sia, la musica di “Romeo e Giulietta” contiene gli stilemi tipici del gioco musicale prokofieviano: asprezza ritmica, originalità armonica, fantasia timbrica, effusione lirica, una tavolozza per dar voce alle infinite sfumature dell’esistenza: c’è la pena del mal di vivere sulle note gravi del fagotto, ma uno scatto orchestrale, all’improvviso, regala forza e speranza grazie alla luminosità dell’oboe, l’italianità dei mandolini e lo strumento del suo secolo, per un intenso solo, il sassofono tenore. La sua è una musica “orizzontale”, immanente, che sa sintonizzarsi su umori, amori e stati d’animo, colorando di suoni la vita dei due giovani. Seconda parte della serata, dedicata interamente al Franz Schubert della Sinfonia n°9, “La Grande”. “Lo dico subito apertamente: chi non conosce questa Sinfonia conosce ancor poco Schubert; e questa lode può sembrare appena credibile se si pensa a tutto quello che Schubert ha già donato all’Arte”. Questa la perentoria affermazione di Robert Schumann, che ne scoprì la partitura. La Sinfonia si apre in un clima di magica evocazione, con il vasto e solenne respiro dell’introduzione, che si integra nell’organismo del primo tempo anche attraverso la citazione del suo tema verso la fine della coda, in una sorta di apoteosi. Nell’Allegro ma non troppo l’elementare energia del primo tema è originata dall’insistenza sul ritmo puntato e sulla successione tonica-dominante. Cantabile e ricco di chiaroscuri è il secondo tema, e grande rilievo assume un misterioso terzo tema, affidato ai tromboni, costruito su brevi incisi, quasi a domande e risposte, e chiaramente desunto dal materiale dell’introduzione. Soprattutto l’ampiezza dell’esposizione (per la quale Schubert prescrive il ritornello) conferisce proporzioni monumentali al prìmo tempo. Gli idealizzati andamenti di marcia che percorrono l’Andante con moto rivelano analogie (non necessariamente intenzionali) con alcuni Lieder del ciclo Die Winterreise (n. 1 e n. 20 in particolare). Articolato secondo lo schema ABA-‘B’A” (dove ogni ritorno è variato), questo movimento, con le sue ambivalenze e i suoi mutevoli umori (con i momenti di dolente intensità, le aperture liriche, il cupo insistito incedere delle crome all’inizio), può essere considerato una delle massime incarnazioni strumentali del tema legato all’immagine schubertiana del Viandante. Lo Scherzo (Allegro vivace) presenta una eccezionale estensione, tra vigore popolaresco e incantata o inquieta cantabilità viennese. Il grandioso finale, in forma di sonata (con lo sviluppo dominato dal secondo tema), è tutto percorso da uno slancio trascinante, da un’impetuosa ansia visionaria che sembra schiudere, con gioiosa immediatezza, l’utopia della liberazione. La Grande è l’ultima sinfonia di Schubert ed è difficile pensare a cosa avrebbe potuto comporre in questa forma. Schubert non fu mai un compositore prevedibile e, forse, la sua libertà intellettuale, unita ad un’urgenza creativa esistenziale molto “romantica”, teneva in serbo qualcosa di ancora più strabiliante. Per lui la sinfonia era il genere più elevato nella creazione musicale, l’unico ambito creativo nel quale cercava un confronto diretto con Beethoven. La Grande si stacca dalle altre, pur geniali, sinfonie che Schubert aveva composto in precedenza, per approdare a qualcosa di assolutamente inedito, che seppur in modo inconsapevole, sembra prefigurare la grandiosità di Bruckner e Mahler. Ancora di Robert Schumann la definizione di “sublime prolissità” di quello che oggi è un caposaldo del repertorio romantico: una eterna sfida, sia per il direttore che per l’orchestra.