Gesù nella tempesta e il lago di Piazza San Pietro - Le Cronache
Spettacolo e Cultura lettura

Gesù nella tempesta e il lago di Piazza San Pietro

Gesù nella tempesta e il lago di Piazza San Pietro

RINO MELE

Linee rette, oblique, ripetute in una diagonale rabbia, sfuggenti alla prospettiva precedente per ricrearne continuamente di nuove, l’abbassarsi del muro d’onda mentre s’alza quello che segue e si frange, nel parossismo dell’urlo del vento che sembra torcersi e, in quella spirale, su se stesso s’avventa. L’oscurità scesa all’improvviso, i remi che mordono il vuoto mentre la grande barca solleva in alto la sua stessa paura.                                                                                                                   Tutto è iniziato con lo scolorire della luce e l’avvicinarsi del buio: “E in quel giorno, fattosi sera” dice Marco nel suo Vangelo, cum sero est factum, ed è il latino familiare di san Girolamo, solo per dire che “s’è fatto tardi”. Gesù aveva per un intero pomeriggio, fino al crepuscolo, parlato alla folla che gli faceva ressa intorno: e chi ascoltava, chi s’allontanava per subito tornare, chi non capiva quello che lui diceva ma era incantato nel vedere questo giovane alto – la barba sporca di sabbia – gridare la sua dolcezza. Lui spiegava per parabole. Marco ci dice che solo ai discepoli parlava direttamente, e in disparte, ma alla folla (come lì, su una sponda del lago di Tiberiade) comunicava attraverso quelle affascinanti forme visive delle parabole, similitudini che incantavano (sine parabola autem non loquebatur eis). Nel tramonto di quel giorno intorno al lago, tra gli alti arbusti di senape, Gesù che in quella ressa vociante riusciva a guardare tutti negli occhi, e a fermare il silenzio in ognuno, volendo spiegare l’enigma del regno di Dio, gridò: “È come un grano di senape (granum sinapis) che quando viene seminato nella terra è il più piccolo tra tutti i grani da seme. E, dopo che è stato seminato, cresce e diventa il maggiore di tutti i legumi e fa grandi rami e gli uccelli del cielo possono fare i nidi nella sua ombra”. Gesù aveva parlato in piedi sulla barca tirata a secco, per farsi udire da tutti. Ora che la sera scende, con la dolcezza di un ordine, dice Transeamus contra, “Andiamocene all’altra sponda”. Mettono la barca in mare e stanco s’addormenta. Ma ecco sopraggiungere un’inaspettata tempesta, Gesù era disteso a poppa e dormiva, le onde si scontravano col difficile avanzare del piccolo legno che nemmeno la perizia di esperti pescatori, com’erano gli apostoli, riusciva a far avanzare. In mezzo al lago, le onde inalberano la loro violenza, generando sconcerto e fredda paura. Gli apostoli ne rabbrividiscono, temono tanto da chiedere aiuto a Gesù che dormiva. Lo svegliano, lo chiamano “Maestro”, domandano perché non si prende cura del loro morire. È un istante (Marco, 4, 39) da fermare come un’impossibile fotografia. Gesù è in piedi sulla barca che sembra spezzarsi e genera disorientamento, guarda il mare e la sua violenza, le onde che s’inerpicano gonfie e senza pace. Gesù si rivolge con severità ai venti e dice al mare: “Taci, ammutisci”. Marco continua il suo racconto: “E la tempesta si placò e intorno si fece silenzio”.
Papa Francesco, tre giorni fa, venerdì 27, accompagnato solo dal cerimoniere è sceso nell’irriconoscibile piazza vuota di San Pietro, sei candelabri accesi, il crocifisso di San Marcello, del ‘500, e un’icona della Madonna. Un cielo piovoso su un deserto di pietra, come un’arena e, nella pioggia, un illimitato silenzio. È sera, la lettura del Vangelo ricorda al papa un’altra sera, quella del lago di Tiberiade, la parabola raccontata da Gesú sul grano di senape che cresce fino a diventare altissimo arbusto con i rami pieni di uccelli, la tempesta sulle acque. Nella piazza il vuoto domina sulle mirabili architetture che lo configurano. Solo col suo corpo esposto nel vento di piazza San Pietro alla sua solitudine, il Papa mostra la condizione di tutti, le contraddizioni, il nostro tragico non reggere la responsabilità di pensare la perfezione e sentircene esiliati. Ha ricordato il disastro ecologico, la devastazione del clima, la sconcertante estrema povertà d’infinite turbe e la morte alluvionale degli innocenti per violenza e per fame, l’irrefrenabile volgarissima deforestazione, il delirio dentro cui s’inscrive l’attuale pandemia. Parlava al vuoto della piazza, e a Dio: “Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato”. Infine, quasi a sciogliere il nodo che tiene stretto l’egoismo del singolo, il suo non saper riconoscere nell’altro il suo stesso volto, ha concluso: “Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato”.