Daniel Oren e la custodia del Fuoco - Le Cronache
Spettacolo e Cultura

Daniel Oren e la custodia del Fuoco

Daniel Oren e la custodia del Fuoco

L’assunto mahleriano ha attraversato l’intero incontro di presentazione della Lucia di Lammermoor che domani sera alle ore 21, vivrà la prima sul palcoscenico del teatro Verdi

 Di OLGA CHIEFFI

 Il suono della glassharmonica è stato protagonista assoluto ieri mattina dell’incontro tenuto nel foyeur del Teatro Verdi, da Daniel Oren e Renzo Giacchieri, presenziato dal Sindaco Enzo Napoli alla vigilia della prima della Lucia di Lammermoor. In un angolo Philipp Marguerre ha incantato la giovanissima platea presente con il solo della famosa scena della follia di Lucia “Ardon gli incensi” e per il finale, l’incipit dell’Adagio, K617, evocazione del successivo Ave Verum. “Tradizione non è culto delle ceneri, ma custodia del fuoco” ha esordito Daniel Oren, con il motto di Gustav Mahler, assunto che guida le sue produzioni e che sarà la ragione estetica su cui baserà anche la produzione di questa Lucia di Lammermoor.  Omaggiare la tradizione non è “chinare il capo al passato”, non è lasciare alle “ceneri del ricordo” il compito di portare fino a noi le immagini di un tempo ormai andato. Omaggiare la tradizione è ben altro: è mantenere vivo quel “fuoco” che brucia vispo nei solchi lasciati dalle vite di chi abita questa terra, alimentarlo con storie evocative ed emozioni travolgenti. Ciò che rende così affascinante il fuoco è la sua indomabilità, è impossibile imprigionarlo così come è impossibile impedirgli di bruciare. Ecco che nasce la necessità di costruire una custodia, dove non si opprime la sua fiamma ma la si plasma, la si lascia ardere fiera seppur in balia del nostro volere. La donna contemporanea si specchia in quella del passato, trovandosi in storie di passione carnale, di volontà di emarginazione, bisogno di indipendenza, di integrazione e di riscatto. L’eroina Lucia che avrà la voce di Gilda Fiume, erede di Mariella Devia, avrà tutti i riflettori puntati addosso. Il suo pianto ha qualcosa di sconsolato, ingenuo e assurdo ad un tempo, che anche lo spettatore moderno, sente di esserne quasi consapevole, e non trova parole per riscattarsi. Il riscatto, però Lucia se prende da sé, offrendo uno spettacolo scenico e vocale di altissimo divismo. Celebre ruolo per soprano d’agilità, o leggero o di coloratura, fornisce una lezione di virtuosismo acrobatico, ma non trascura la scansione del testo, la “melanconia”, secondo Freud, psichicamente caratterizzata da un profondo e doloroso sentimento, da un venir meno dell’interesse per il mondo esterno, dalla perdita della capacità di amare, dall’inibizione di fronte a qualsiasi attività e da un avvilimento di sé che si esprime in autorimproveri e autoinganni e culmina nell’attesa delirante di una punizione, che sarà acuita dal ritorno alla partitura originale di Gaetano Donizetti, che prevedeva il suono penetrante, stordente, senza tempo della glassharmonica. Una vocalità quella della Lucia che si pone in contrasto con il suo partner, il tenore Edgardo, che qui sarà Stefano Secco, compie quel passo decisivo verso l’affermazione di un canto tenorile che si divide tra accenti intrepidi e drammatici e un lirismo intenso. Egli pertanto possiede la vocalità del tenore di grazia, dalla voce soave e struggente, penetrante e luminosa nell’acuto che dona al pubblico singolare dolcezza ed etereo abbandono, divenendo il ritratto dell’eroe romantico maschile. Edgardo fu il primo in cui debuttò un tenore nel senso moderno del termine, poiché in quegli anni spariva la consuetudine dei tenori di usare il falsetto nel registro medio-acuto e fu proprio Duprez, il primo Edgardo, ad utilizzare per primo – con un duro esercizio – il registro di petto anche per gli acuti. Consigliato dal maestro anche l’ascolto del concertato “Chi raffrena il mio furore” in cui vengono rappresentati in contemporanea diversi stati d’animo: “In prosa sarebbe una Bavèl, sei voci sovrapposte, ma in musica tutto è possibile!”. Il regista, Renzo Giacchieri alla sua seconda Lucia qui a Salerno, ha inteso schizzare, anche con il supporto dello scenografo Alfredo Troisi, che ha praticamente “riciclato” vecchi elementi scenici ridonando loro nuova luce per l’opera di Donizetti, il volto gotico noir del romanticismo della Lucia, non nostalgico dello sfarzo e della pompa, ma sensibile al richiamo dell’ancestrale, degli umori corporali e psichici che sono causa ed effetto della alienazione. Chiusura per il sindaco che ha rafforzato l’assunto mahleriano con l’aforisma di Oscar Wild “La tradizione è una innovazione ben riuscita”, per i lumi e il pathos di Baruch Spinoza e chiudendo con la “Musicofilia di Oliver Sachs in cui musica, emozione, memoria e identità si intrecciano, e ci definiscono.